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Così l’Italia ha recepito la direttiva salva-banche

Il 2 luglio la Camera dei Deputati ha definitivamente approvato la Legge di delegazione europea 2014, che prevede tra le altre cose il recepimento della direttiva sulla "risoluzione" e "risanamento" di crisi o dissesti di istituti di credito. Tra gli strumenti c’è anche il contestato "bail-in", salvataggio interno delle banche a carico di azionisti e depositanti. Il Parlamento avrebbe potuto avvalersi di una clausola di salvaguardia prevista dal legislatore europeo, ma non l’ha fatto

“Regalo alle banche”, “prelievo forzoso”, “colpo dei banchieri globali”, oppure “atto dovuto”, “strumento innovativo”, “incentivo a vigilare sul buon funzionamento delle banche”. Sono contraddittorie le definizioni date in questi giorni del cosiddetto “bail-in” (salvataggio interno), uno dei quattro “strumenti di risoluzione” da adottare in caso di dissesto o crisi di enti creditizi introdotti dalla direttiva “Bank Recovery and Resolution Directive” (BRRD, 2014/59) del Parlamento e del Consiglio europeo nel maggio 2014. Il recpimento doveva avvenire entro il 31 dicembre dello scorso anno, ma la “Legge di delegazione europea 2014” ha ricevuto l’imprimatur dal Parlamento italiano soltanto all’inizio del mese di luglio, dopo la messa in mora ufficiale a fine gennaio.
Il dibattito pubblico si è concentrato in buona parte sui depositi a rischio “prelievo forzoso”, ma in pochi hanno notato come il Parlamento italiano abbia scelto di recepire la direttiva senza avvalersi di una sorta di clausola di garanzia e salvaguardia, pur se prevista come facoltativa.
 
Facciamo però un passo indietro. L’obiettivo della BRRD -dichiarato in Gazzetta ufficiale dell’Unione europea- è quello di “prevenire stati di insolvenza o, in caso di insolvenza, ridurre al minimo le ripercussioni negative preservando le funzioni dell’ente interessato aventi rilevanza sistemica”. Cioè salvare le banche attutendone gli effetti di un dissesto, con buona pace di (certi) azionisti e (alcuni) depositanti.
 
Per farlo, attraverso lo strumento del “bail-in”, il nuovo “regime dovrebbe assicurare che gli azionisti sostengano le perdite per primi e che i creditori le sostengano dopo gli azionisti”. A partire dal primo gennaio 2016. Il tutto per evitare di pesare in futuro sui bilanci degli Stati, già chiamati in un recente passato a “salvare” gli istituti di credito appesantendo il proprio debito pubblico. Fenomeno che ha interessato anche il nostro Paese: secondo la Banca d’Italia, infatti, “in Italia il sostegno pubblico è stato di circa 4 miliardi di euro”, nonostante il presidente dell’Associazione bancaria italiana (Abi), Antonio Patuelli, abbia sostenuto -dopo la pubblicazione dell’enciclica papale “Laudato Si’”– che “né lo Stato né soggetti pubblici hanno versato un euro alle banche”.
 
Tornando alla direttiva, il paradosso di tutelare i correntisti chiedendo contemporaneamente loro uno sforzo per salvare una banca non è sfuggito agli autori del provvedimento: “Essendo la protezione dei titolari di depositi protetti uno degli obiettivi più importanti della risoluzione -si legge nelle premesse della BRRD-, è opportuno che lo strumento del bail-in non incida sui depositi protetti, anche se il sistema di garanzia dei depositi dovrebbe contribuire comunque a finanziare il processo di risoluzione”.
 
Nel recepire la direttiva, il Parlamento italiano ha individuato come “autorità di risoluzione” -quella cioè chiamata a “risolvere” le situazioni di crisi o dissesto ricadenti nel nostro Paese- la Banca d’Italia, istituto di diritto pubblico al cui capitale (da 7,5 miliardi di euro) partecipano -per oltre il 50% delle quote- anche Intesa Sanpaolo Spa e Unicredit Spa. 
 
Ed è stata proprio Banca d’Italia a predisporre in questi giorni un documento di 9 pagine dentro al quale ha provato a rispondere alla domanda “Che cosa cambia nella gestione delle crisi bancarie?”. È spiegato ad esempio che cos’è il “bail-in” -lo strumento che consente alle autorità (Banca d’Italia nel nostro caso) di ridurre il valore delle azioni e di alcuni crediti o la conversione di azioni per assorbire le perdite di un certo istituto-, e chiarito il tema delle “passività escluse” -tra le quali com’è noto rientrano i depositi protetti dal “sistema di garanzia dei depositi”, cioè quelli di importo fino a 100mila euro-.
 
Ed eccoci alla mancata adozione di quella che appare come una clausola di salvaguardia. Nella direttiva discussa c’è un articolo -l’85- che s’intitola “Approvazione ex ante delle autorità giudiziarie e diritti di impugnare le decisioni”. E lì si legge che “Gli Stati membri possono imporre che una decisione di adottare una misura di prevenzione della crisi o una misura di gestione della crisi sia soggetta a un’approvazione ex ante delle autorità giudiziarie”. Di fatto, quindi, dal primo gennaio 2016, una “misura di prevenzione della crisi” -come appunto l’esercizio del potere di svalutazione- o una “misura di gestione della crisi” si sarebbero potute (e dovute) assumere sottoponendo prima il quadro all’autorità giudiziaria. Un’ipotesi scartata dal Parlamento. Una garanzia (in meno) che avrebbe probabilmente spuntato alcune perplessità (legittime) dei più scettici.

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