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Canale di Suez: a 150 anni dall’inaugurazione è tutto ancora in gioco

Canale di Suez, 1892-1897 circa. Fotografo sconosciuto - © Archivio storico Intesa Sanpaolo (Eredi Siglienti)

La più importante via marittima di collegamento fra Mar Mediterraneo e Oceano Indiano, disegnata tra gli altri da due ingegneri italiani, è stata aperta ufficialmente il 17 novembre 1869. È di nuovo al centro della geopolitica mondiale: dal commercio internazionale agli impatti ambientali e sociali, fino alla destabilizzazione dei Paesi coinvolti lungo le rotte

A 150 anni dall’inaugurazione del Canale di Suez, la miopia dell’Italia è peggiorata. Tutti gli occhi sono oggi puntati sulla più importante via marittima di collegamento fra Mar Mediterraneo ed Oceano Indiano, aperta ufficialmente il 17 novembre 1869 e di nuovo al centro della geopolitica mondiale, ma il nostro Paese pare avere ben altre preoccupazioni. Proprio come avvenne in passato, è la Francia ad essersi posta quale interlocutore di riferimento europeo nei rapporti con l’Egitto, avendo dichiarato il 2019 Anno incrociato della cultura sull’asse Parigi-Cairo. La mostra “Suez Canal epic: from the pharaohs to the 21st century”, organizzata lo scorso anno a Parigi dall’Istituto Mondiale Arabo, è stata infatti ben attenta a ricondurre la paternità della titanica opera di scavo all’imprenditore Ferdinand de Lesseps.

Eppure saremmo ancora insabbiati nelle dune nordafricane se due ingegneri italiani, Pietro Paleocapa e Luigi Negrelli, non avessero disegnato il progetto esecutivo del Canale. Né questo avrebbe visto rapidamente la luce, senza l’apporto decisivo della manodopera italiana, proveniente dalla più grande comunità migrante insediata all’epoca in Egitto. A valorizzare le enormi potenzialità del Canale, inoltre, contribuirono figure di caratura internazionale come il geografo Manfredo Camperio, o, più di recente, lo scomodo fondatore dell’Eni Enrico Mattei. Roba da topi di biblioteca, avranno pensato a Roma. Sarebbe bastato leggere attentamente l’ultimo rapporto dell’Osservatorio italiano d’economia marittima, invece, per rendersi conto che a Suez è in gioco molto di più: il futuro della globalizzazione, ma anche della stabilità politica del Medio Oriente e dell’Africa. Due processi da cui, nel bene o nel male, dipendono le sorti economiche dell’Italia.

“Il 9-10% del commercio internazionale del globo -riporta il documento- utilizza oggi questa via di passaggio. La crescita delle merci in transito registra valori importanti, confermata anche nel 2018, anno in cui è stato segnato un doppio record in termini di numero di navi (oltre 18mila, +3,6%) e di cargo trasportato (983,4 milioni di tonnellate, +8,2%). Il nuovo risultato è stato stabilito grazie alle merci sulle navi in direzione da Nord verso Sud, pari a 524,6 milioni di tonnellate (+9,8%), mentre da Sud a Nord sono state registrate 458,8 milioni di tonnellate (+6,6). Grazie all’apertura del secondo tracciato nel 2015, lo scorso anno la dimensione media delle navi in transito per il Canale è cresciuta del 12% rispetto al 2014 (le navi container del 24%), evidenziando che la nuova infrastruttura sta assecondando le esigenze del gigantismo, fenomeno riguardante tutte le tipologie di naviglio”.

In poche righe sono già riassunte le principali sfide che i Paesi mediterranei si trovano oggi ad affrontare, alla luce soprattutto della dirompente Belt & Road Initiative, il progetto della Nuova Via della Seta sottoscritto dal governo attraverso il Memorandum italo-cinese dello scorso marzo. Un piano strategico che, a regime, farà letteralmente esplodere il traffico Est-Ovest via Suez (+7,1 trilioni di dollari l’anno per il Pil mondiale entro il 2040, già sostenuto negli ultimi 10 anni da una crescita del 37% dell’interscambio col Sud-Est Asiatico e del 77% col Golfo Persico). Unitamente ai 29 accordi stretti con Pechino, dal valore di 2.5 miliardi di euro, l’Italia prevede fra l’altro 7 miliardi di investimenti cinesi sui porti di Genova e Trieste, destinati a diventare i due punti terminali della Via della Seta nel Mediterraneo, col supporto di altri venti scali nazionali.

“A seguito dell’esperienza coloniale -spiega Alessandro Pellegatta, uno dei maggiori esperti sul Corno d’Africa, nonché autore di fondamentali saggi quali ‘Manfredo Camperio, storia di un visionario in Africa’ (2019) o ‘Il Mar Rosso e Massaua’ (2019)- il nostro Paese ha ancora una qualche influenza in questa delicatissima area del globo. Come relazionato dall’ISPI, il Corno d’Africa è una penisola diventata nell’ultimo quindicennio protagonista di fenomeni e dinamiche politico-economiche rilevanti a livello globale. Al contempo, rimane una delle regioni al mondo con i più bassi livelli di sviluppo socio-economico e i più elevati livelli di vulnerabilità ambientale. Oggi abbiamo una percezione negativa degli eventi della globalizzazione, ne vediamo prevalentemente le diseguaglianze e le iniquità, ma a livello storico il commercio è stato il più influente fattore di dialogo e collaborazione dei popoli”.

Presa quasi in contropiede dalla rapidità dell’avanzata cinese nel Mar Rosso e nel Mediterraneo, l’Italia si trova a fare i conti con criticità che necessitano di soluzioni a breve termine. È ancora il rapporto dell’Osservatorio di economia marittima a stigmatizzare l’eccessivo peso del trasporto su gomma nel nostro Paese (49% del totale), non supportato da un adeguato sistema di trasporti intermodale, ma anche la tendenza a esternalizzare la logistica (l’85% delle imprese export), il ritardo nella digitalizzazione dei servizi portuali, l’eccessivo ricorso alle rese ex-works, cioé l’attribuire costi e rischi del trasporto a carico del compratore (64%), o anche la mancata istituzione di Zone Economiche Speciali o Zone di Libero Scambio, in grado di incrementare le esportazioni sino al 40% in più del valore attuale. Criticità, in particolare, che stanno ostacolando il rafforzamento dell’internazionalizzazione via Suez delle filiere del Mezzogiorno (21,2 miliardi di prodotti esportati in tutto il mondo, con picchi nel settore dell’agroalimentare, dell’abbigliamento, dell’aerospazio, dell’automotive e del biofarmaceutico).

In assenza di una consapevolezza storica sulle dinamiche generate dal Canale, restano in ombra aspetti ancora più preoccupanti. “Abbiamo ripetutamente portato l’attenzione sul fallimento delle policy ambientali legate all’espansione del Canale di Suez”, ha evidenziato Bella Galil, biologa marina dell’Istituto Oceanografico d’Israele e membro di un team internazionale di ricercatori sull’ecosistema del Mediterraneo. “Oltre 700 specie aliene, la metà delle quali in arrivo dall’Oceano Indiano, hanno già colonizzato tutta l’area orientale dell’antico Mare Nostrum e, nonostante siano disponibili studi da quasi cent’anni, nessuno oggi è in grado di dire cosa potrà accadere alla vita marina per via di questo impatto inarrestabile”. Due specie di pesce-coniglio hanno distrutto interi corridoi di piante sottomarine nel Mediterraneo orientale, mentre le pericolosissime colonie di meduse Rhopilema nomadica hanno già reso impossibile la pesca commerciale in ampie aree, danneggiando il turismo, così come alcune stazioni energetiche sottomarine, lungo la costa fra Libano ed Egitto. Solo nell’alto Adriatico italo-croato, secondo l’Università dell’East Anglia, le perdite economiche sono state di 8.2 milioni di euro. “Per far spazio alle opere legate all’apertura del secondo tracciato del Canale di Suez – ha poi dichiarato Sherine al-Haddad, avvocato difensore dei residenti nella penisola del Sinai – quasi 5mila cittadini, dal 2015, sono stati costretti ad abbandonare le proprie abitazioni”.

Per scongiurare la penetrazione della Cina nell’area del Corno d’Africa e favorire i porti atlantici contro quelli mediterranei, è in corso anche una guerra mediatica a colpi di report prodotti dalle grandi compagnie di navigazione del Nord. A partire dal raddoppio del tracciato di Suez, per la danese SeaIntel, sarebbero almeno 115 i vascelli già trasferitisi sulle rotte Asia-Usa e Asia-Nord Europa, circumnavigando il Capo di Buona Speranza. Un paradosso, visto che il passaggio nel Mar Rosso garantisce una “scorciatoia” di circa 6.480 chilometri. Tasse troppo alte, così come la generale convenienza dei prezzi del petrolio di questi anni, renderebbero invece più appetibile il lungo periplo africano. Asserzioni smentite, con ripetute prese di posizione ufficiale, direttamente da Mohab Mamish, managing director dell’Autorità del Canale di Suez. Lo scontro, però, non si limita al controllo dell’informazione; studi di diverse agenzie internazionali, fra cui il primo report continentale prodotto nel 2019 dalla Commissione dell’Unione Africana in collaborazione con Small Arms Survey, attestano come la vendita segreta di armi nel Corno d’Africa punti a destabilizzare, o a “pacificare” i Paesi coinvolti, in funzione del sostegno alle diverse rotte commerciali. Senza uno sguardo di ampio respiro, non solo l’Italia corre dunque il rischio di non essere ricordata come il Paese che diede il maggior contributo all’apertura del Canale di Suez, ma anche, e soprattutto, come quello che può finire per pagarne le conseguenze peggiori.

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