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Opinioni

Brexit, l’Europa, le banche (italiane) e gli aiuti di Stato

L'Euro è la nuova sede della BCE

La Commissione europea potrebbe frenare i piani del governo italiano per sostenere economicamente gli istituti di credito in difficoltà. Ma -secondo Alessandro Volpi- l’eccessivo rigore potrebbe essere controproducente. Perché “l’Europa a 27 contiene in sé aree economiche troppo differenti e troppo disomogenee”, e perché rappresenta “un mercato in cui esistono sistemi fiscali profondamente diversi”

La Brexit ha scatenato nuove tensioni sul sistema bancario europeo, e su quello italiano in particolare.Mario Draghi ha ipotizzato una contrazione del prodotto interno lordo (Pil) del Vecchio Continente dello 0,5%, mentre sembrano ripartire forti ventate speculative.

Il governo italiano, di fronte ad un simile quadro e nella consapevolezza della fragilità di alcuni istituti, ha provato a concepire vari strumenti di difesa, alcuni decisamente ortodossi -come nel caso delle garanzie statali sull’approvvigionamento di liquidità proveniente dalla Bce, con l’obiettivo di renderla realmente operativa-, altri meno “filologici” rispetto alle vigenti regole europee, a cominciare dall’intervento diretto nel capitale delle banche o dalla creazione di nuovi veicoli per agevolare lo smaltimento delle sofferenze.
Una prima apertura da parte della Commissione europea è intervenuta su uno schema di garanzie pubbliche utilizzabili dalle banche italiane per raccogliere liquidità nel momento in cui si determinassero condizioni di grande difficoltà sul mercato. Si tratta, tuttavia, di una misura tampone, non in grado, per quanto di indubbia utilità immediata, di affrontare il problema in maniera strutturale. Eppure la gravità della situazione, ben oltre la natura eccezionale della congiuntura, dovrebbe risultare evidente a tutti: l’Inghilterra è uscita dall’Europa, in diversi Paesi membri stanno affermandosi sentimenti radicalmente antieuropei e l’euroscetticismo è l’atteggiamento più diffuso anche in chi fino a poco tempo fa assegnava proprio all’Unione il compito di garantire un futuro migliore a decine di milioni di cittadini.
Nonostante tutto ciò la Germania e una parte del fronte “nordico” del rigore continuano, con ferrea pervicacia, a chiedere il rispetto delle regole contenute nel Patto di Stabilità e, soprattutto, a ribadire il divieto di aiuti di Stato sotto qualsiasi forma si presentino. Proprio su questo secondo aspetto sarebbe invece necessario fare chiarezza e modificare in profondità la linea fin qui tenuta dall’Europa. Per “aiuto di Stato” si intende qualsiasi trasferimento di risorse pubbliche a favore di alcune imprese o produzioni che, attribuendo un vantaggio economico selettivo”, falsa o minaccia di falsare la concorrenza; così si esprimono gli articoli 107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. È significativa la specificazione secondo cui è sufficiente la “minaccia” di falsare la concorrenza -e non l’effettiva violazione- perché scatti la condanna di un intervento economico nazionale come aiuto di Stato. Questa normativa già molto estesa, e inevitabilmente arbitraria, è stata poi declinata in una serie pressoché infinita di direttive e circolari che trattano i temi più svariati, ben oltre il mero ambito produttivo, dall’ambiente, alla ricerca e all’innovazione, ad una definizione molto generica di servizi, passando attraverso il divieto di aiuti di Stato sotto forma di garanzie e de minimis.
Una siffatta costruzione barocca si fonda su una visione che appare, al contrario, fin troppo elementare e quasi apodittica del funzionamento delle economie contemporanee in base alla quale è concepibile l’idea di realizzare un mercato “perfetto” in cui vige la piena, libera concorrenza, vera panacea di ogni male. In concreto però la possibilità di dare corpo ad un simile eden liberista si scontra con alcuni fattori molto difficili da rimuovere.
1) L’Europa a 27 contiene in sé aree economiche troppo differenti e troppo disomogenee perché si possa immaginare, al di là della libera circolazione delle merci, un mercato dove i competitori siano capaci di individuare la loro vocazione produttiva e su quella fondare, in regime di concorrenza aperta, la propria migliore forza economica, in grado di partorire benefici diffusi.
2) In un mercato in cui esistono sistemi fiscali profondamente diversi e normative commerciali e civilistiche assai difformi i tentativi di forzata uniformità delle politiche economiche nazionali, che dovrebbero astenersi da ogni tipo di sostegno mirato e adottare una assoluta asetticità, rischiano di cristallizzare piuttosto che rimuovere le disuguaglianze, certo non risolvibili con le tradizionali e ormai logore logiche della convergenza.
3) La pretesa di mantenere in vita un rigore insuperabile in materia di aiuti di Stato può causare l’effetto negativo di sterilizzare le strategie monetarie della Bce in quanto il diluvio di liquidità generato dall’istituto di Mario Draghi corre il pericolo di non essere utilizzabile se non sono i singoli Stati, attraverso interventi mirati e di sostegno, a renderlo possibile. Tale liquidità è altrimenti destinata a finire nelle mani solo di poche realtà più robuste.
In estrema sintesi, gli aiuti di Stato, come del resto è avvenuto nel corso della storia economica del Vecchio Continente, rappresentano uno degli strumenti utilizzabili proprio per superare i ritardi di settori in difficoltà; certo in diversi casi hanno drogato i mercati, hanno tenuto in piedi esperienze fallimentari e hanno impedito il sia pur doloroso spostamento di risorse in direzione di ambiti produttivi emergenti.
Sono stati alla base, tuttavia, di quella che Karl Polany ha definito la Grande trasformazione dell’economia contemporanea e oggi tornano ad essere necessari per evitare il tracollo dell’idea di Europa, alimentabile solo da consapevoli politiche nazionali.
* Alessandro Volpi, Università di Pisa
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