Economia / Inchiesta
Dentro la bolla di Netflix, tra debiti e nuovi concorrenti
Nel 2018 i ricavi hanno sfiorato i 15,8 miliardi di dollari e gli abbonati sono oltre 139 milioni in 190 Paesi. Ma il debito a lungo termine della società ha raggiunto i 10,3 miliardi di dollari. Disney e Amazon preparano l’assalto
Quando il New York Magazine ha chiesto al responsabile dei contenuti di Netflix di riassumere il modello di crescita del “più grande servizio di intrattenimento via internet del mondo”, Ted Sarandos ha risposto così: “Più show a disposizione, più persone li stanno a guardare. Più persone li stanno a guardare, più raccogliamo abbonamenti. Più abbonamenti, più ricavi. Più ricavi, più contenuti”. Era il 2018, l’anno della consacrazione del colosso americano, nato nel 1997 come piattaforma per il noleggio online di film, e poi lanciatosi, dieci anni più tardi, nel servizio in streaming offrendo su abbonamento serie TV e film online ai propri utenti. La linea del tempo di Netflix è fatta di poche tappe molto significative. Nel 2010, tre anni dopo la trasformazione, arriva in Canada, poi in America Latina e Caraibi. In Europa, Regno Unito e Irlanda sbarca nel 2012. L’”espansione” in Italia risale al 2015, come per Spagna e Portogallo. Alcuni titoli familiari: “Bird Box” con Sandra Bullock, “The Christmas Chronicles” prodotto da Chris Columbus, “Roma” di Alfonso Cuarón; in Italia in particolare le serie “La Casa de Papel”, “Suburra”, lo show “Baby”, o film come “Sulla mia pelle” sul caso di Stefano Cucchi o cinepanettoni alla “Natale a 5 stelle”.
Dal 2016 Netflix è “disponibile in tutto il mondo”. E la cavalcata si ritrova scorrendo anche gli ultimi bilanci della società “madre”, la Netflix Inc., che ha sede nello Stato USA a fiscalità agevolata del Delaware, uffici esecutivi a Los Gatos, in California, ed è quotata in Borsa (NASDAQ). I ricavi registrati nel 2018 hanno sfiorato 15,8 miliardi di dollari (contro gli 8,8 miliardi del 2016), mentre gli abbonati in oltre 190 Paesi del mondo hanno raggiunto quota 139 milioni (erano 50 milioni nel 2014). Se a questi dati si aggiungono poi i riconoscimenti internazionali ottenuti da contenuti a marchio Netflix, come i cinque Golden Globes di inizio 2019, si ha un’idea dell’evoluzione della piattaforma che tra i primi azionisti istituzionali annovera i principali fondi di investimento degli Stati Uniti: Capital Group, Vanguard Group e BlackRock.
Di fronte alla corsa di “Netflix”, colosso diventato ormai multinazionale, Jo Ellison sul Financial Times, a fine dicembre 2018, si è chiesta se ci troviamo di fronte a una forza del bene, che ha stimolato il mercato sperimentando format e generi nuovi e originali, oppure a una sorta di “Coca-Cola culturale” che cancella la concorrenza, appiattisce i contenuti e sottrae i talenti della scrittura e della produzione, anche cinematografica, ai singoli Paesi europei per portarli a suon di milioni dollari negli Stati Uniti? Una risposta non c’è, perché non è possibile arrivarci. E perché quello che è interessante osservare, invece, oltre al modello di Netflix, è quello che sta succedendo intorno al gigante, che è certamente all’apice del suo sviluppo ma forse anche all’inizio del suo declino.
A fronte dei ricavi stellari, infatti, Netflix ha visto schizzare però anche il suo debito a lungo termine, passato dai 3,3 miliardi di dollari di fine 2016 ai 10,3 miliardi di fine 2018. L’esposizione crescente deriva dalla scelta di investire in nuovi contenuti in grado di attirare sempre più abbonati. Ed è per far fronte a 13 miliardi di dollari messi sul piatto per nuovi film, serie o documentari, che il colosso ha annunciato un aumento dei prezzi negli Stati Uniti (tra il 13 e il 18%), dove conta 58 milioni di utenti, entro i primi tre mesi del 2019. Accanto alla sostenibilità del debito, c’è poi il capitolo dei concorrenti. Disney ha annunciato l’arrivo della piattaforma “Disney+” (il che significa contenuti da Marvel e Pixar), AT&T della WarnerMedia e soprattutto Amazon (che fattura 10 volte di più rispetto a Netflix) preparano l’assalto.
“Stiamo davvero guardando documentari in lingua straniera o stiamo poltrendo davanti a vecchie repliche di ‘Friends’?” – Jo Ellison, giornalista del “Financial Times”
Da non sottovalutare anche l’elemento “reputazione”. Basti pensare a quanto avvenuto all’inizio dell’anno con un episodio dello show americano “Patriot Act”, dove il conduttore Hasan Minhaj aveva osato criticare la monarchia dell’Arabia Saudita e in particolare il principe Mohammed Bin Salman per l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. Dopo aver ricevuto una “valida richiesta legale”, Netflix ha deciso di cancellare l’episodio dal palinsesto in onda nel Paese “sensibile”, scatenando l’indignazione tra gli altri dell’organizzazione Human Rights Watch. Accanto ai nodi della concorrenza e della reputazione, c’è poi quello ancora più delicato dei contenuti. Secondo un’analisi del centro di ricerca multimedia Ampere (ampereanalysis.com), su 100 ore trascorse dagli utenti su Netflix, i contenuti originali prodotti ad hoc dalla piattaforma non superano l’8% del totale.
“Stiamo davvero guardando documentari in lingua straniera o stiamo poltrendo davanti a vecchie repliche di Friends?”, si è chiesta Ellison sul Financial Times. La domanda non è banale. I diritti della sitcom statunitense trasmessa dal 1994 al 2004 sono di proprietà della WarnerMedia, alla quale Netflix ha versato fino al 2018 qualcosa come 30 milioni di dollari all’anno per offrirla ai propri abbonati. Poi -come rivelato a inizio dicembre dello scorso anno dal New York Times- la posta è salita fino a 100 milioni di dollari. Un successo assicurato a un costo salatissimo. I vertici di Netflix, pubblicamente, non sembrano preoccuparsene troppo. “La nostra attenzione non è focalizzata su Disney+, Amazon o altri -si legge nella lettera indirizzata agli azionisti a metà gennaio 2019- ma su come possiamo migliorare l’esperienza dei nostri utenti”.
Esperienza che si è sviluppata anche in Italia. Per prassi, Netflix non diffonde la quota di abbonati distinta per ciascun Paese. Nel nostro, secondo uno studio di fine 2018 curato dalla società di consulenza EY (già Ernst & Young), è noto però che gli abbonamenti a piattaforme di videostreaming a pagamento siano intorno ai 5,2 milioni (dato aggiornato al giugno 2018). Cifra che passa a 8,3 milioni considerando gli utenti reali, cioè gli altri membri della famiglia che guardano serie TV o film con un unico abbonamento.
Netflix non è la sola: i concorrenti citati dallo studio EY sono infatti Amazon Prime Video, Timvision, Now Tv che fa capo a Sky, Infinity (Mediaset), Eurosport Player. Ma la posizione di leadership assoluta è di Netflix, anche se in Italia non ha un ufficio. Nemmeno una succursale che sotto forma di società a responsabilità limitata si occupi del marketing, come accade invece per Facebook o Google. Le fatture emesse ogni mese agli utenti italiani arrivano dall’Olanda -Paese a fiscalità agevolata- da parte della Netflix International B.V.: sede ad Amsterdam e capitale sociale di 12.500 euro. Chi si occupa della comunicazione per conto del gruppo nel nostro Paese -un’agenzia esterna- conferma ad Altreconomia che anche “l’ufficio italiano di Netflix ha sede ad Amsterdam”.
Le fatture emesse ogni mese agli utenti italiani arrivano dall’Olanda -Paese a fiscalità agevolata- da parte della Netflix International B.V.: capitale sociale di 12.500 euro
Tutto legittimo: il punto è che in assenza del numero di abbonati e di un bilancio, non è dato conoscere il giro d’affari di Netflix. Ricavi, costi, tasse. A precisa domanda, la società si è limitata a far sapere che “Per ogni abbonamento italiano a Netflix (Base da 7,99 euro al mese, Standard da 10,99 e Premium da 13,99, ndr), l’azienda versa allo stato l’IVA per un valore pari al 22%”. E ci mancherebbe. Prima di insediarsi in Olanda, la sede europea di Netflix, dal 2011, era in Lussemburgo (Netflix Luxembourg S.à.rl). Poi, a partire dal gennaio 2015, la Netflix International B.V. guidata dal direttore degli affari legali Rob Zimmermann ne ha preso il testimone.
Ma questo non è l’unico anello della catena olandese del colosso (i cui bilanci in quel Paese sono certificati da EY). Il socio unico di chi spedisce la fattura (anche) all’abbonato italiano, infatti, è la Netflix International Holdings B.V., domiciliata anch’essa ad Amsterdam e a sua volta controllata al 100% dalla NFGH LLC che invece ha sede a Wilmington, nel Delaware, Stati Uniti. L’ultima arrivata nello schema olandese di Netflix, nel febbraio 2018, è la “Netflix CPX International B.V.”, con un solo euro di capitale sociale che, stando alla Camera di commercio dei Paesi Bassi, a metà gennaio 2019, non risulta ancora versato. È un classico schema di “ottimizzazione fiscale” ampiamente utilizzato dalle imprese multinazionali e in particolare dalle cosiddette “WebSoft” (Software&Web companies): da Alphabet (Google) a Facebook, fino alla più “piccola” Netflix. Ed è molto conveniente. Secondo l’Area Studi di Mediobanca, “circa due terzi dell’utile ante imposte delle multinazionali WebSoft è tassato in Paesi a fiscalità agevolata”. Questo avrebbe “permesso un risparmio fiscale di oltre 12 miliardi nel 2017 […] Il beneficio fiscale per le WebSoft cumulato nel 2013-2017 ha superato i 48 miliardi di euro”.
La Netflix International B.V. è anche il soggetto che per conto della multinazionale è formalmente iscritto (dal 2015) all’albo per la trasparenza delle attività di lobby presso la Commissione europea. Occupa tre persone, di cui due a tempo pieno, e nel 2017 ha investito per le “attività che rientrano nell’ambito di applicazione del Registro” (Lobby) tra gli 800mila e i 900mila euro. Oltre a incassare gli abbonamenti europei e a condurre attività di lobby comunitaria, Netflix International B.V. è anche titolare del trattamento dei preziosi dati personali degli utenti della piattaforma Ue -nome, indirizzo email, indirizzo o codice di avviamento postale, metodi di pagamento e numero di telefono, etc-, che per aderire al servizio devono necessariamente “avere almeno 18 anni”. Le informazioni degli utenti raccolte da Netflix, come riporta l’Informativa sulla privacy, sono condivise con tutte le società del gruppo, con i “Fornitori di servizi” (attività di marketing, attività pubblicitarie, comunicazioni, etc), con “terze parti” per “offrire promozioni o programmi congiunti”. Fino alla metà di gennaio 2019, fanno sapere dagli uffici del Garante per la protezione dei dati personali (garanteprivacy.it), è partita una sola segnalazione per supposta violazione del trattamento. Immediatamente rientrata dopo la risposta via mail che Netflix ha fornito all’abbonato. In lingua italiana, rigorosamente da Amsterdam.
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