Ambiente / Attualità
Per il bene del Pianeta la FAO cambi la definizione di “foresta”
Duecento organizzazioni di tutto il mondo chiedono all’agenzia delle Nazioni Unite di escludere le piantagioni industriali intensive dall’elenco delle aree boscate, perché non tutte le superfici coperte da alberi sono uguali. E la tutale degli eco-sistemi, per ridurre gli effetti negativi dei cambiamenti climatici, non può prescindere da una valutazione sull’impatto sociale ed ambientale sulle popolazioni delle aree coinvolte
I boschi e le foreste non sono tutti uguali, ed è riduttivo considerare questi eco-sistemi solo “un insieme di alberi” di una determinata altezza minima e che ricoprano in una determinata percentuale un’area definita. È, però, quello che fa la FAO (l’agenzia delle Nazioni Unite per il cibo e l’alimentazione), ed è per questo che circa 200 organizzazioni di tutto il mondo, coordinate dal World Rainforest Movement, in occasione della Giornata internazionale delle foreste (il 21 marzo) hanno inviato una lettera all’agenzia con sede a Roma, chiedendo di modificare radicalmente una definizione che, oramai anacronistica (è del 1948). Il motivo principale è che essa “avrebbe permesso all’industria delle piantagioni di nascondere dietro all’immagina positiva di ‘boschi’ e ‘foreste’ il devastante impatto ecologico e sociale della monocoltura di alberi su larga scala”.
Dall’Italia hanno garantito la propria adesione all’iniziativa il Centro internazionale crocevia e Terra Nuova.
La lettera spiega in che modo la definizione di “bosco” della FAO danneggi le comunità locali e i boschi stessi, a partire dalla presentazione di un caso studio emblematico, quello del Brasile: nel Paese sudamericano, che è quello con la maggior copertura forestale di tutto l’emisfero Sud, la superficie occupata da piantagioni industriale di alberi sarebbe pari ad oltre 8 milioni di ettari, in larga maggioranza a eucalipto. E facendo propria la definizione FAO, il Servicio Forestal Brasileño, che è un dipartimento del ministero dell’Ambiente, è arrivato a descrivere l’esistenza di “boschi naturali” e “boschi piantati”, a partire dalla definizione di “tipologie di vegetazione legnosa” della FAO.
È proprio la (legittima) capacità della (autorevole) agenzia ONU di influenzare la definizione di “bosco” data da ogni singolo Paese che ha mosso, fin dal 2015, la protesta delle organizzazione della società civile: nel settembre di quell’anno, infatti, venne avanzato una prima volta la richiesta, in occasione del Congresso forestale mondiale, e lo fecero migliaia di persone che protestarono in strada a Durban, in Sud Africa, e oltre 100mila che firmarono una petizione. La FAO non rispose, né ritenne lecito intervenire: “L’organizzazione cerca di convincerci che la sua funzione è solo quella di ‘omologare’ le differenti definizione che esistono nei diversi Paesi, ma è davvero così?”, si chiedono, in modo retorico, i firmatari della lettera aperta.
L’esigenza di modificare la definizione del 1948 viene anche dalla necessità di realizzare in modo efficace il mandato dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, raggiunto nel dicembre del 2015 nell’ambito della ventunesima conferenza delle parti dell’UNFCCC (United Nation framework Convention on Climate Change), che è quello di ridurre le emissioni climalteranti in modo da contenere l’incremento medio delle temperature globali entro il limite di 1,5°C. Purtroppo, spiega la lettera, anche l’UNFCCC ha adottato la definizione FAO, e quindi definisce bosco qualsiasi “superficie di terra contenente alberi”, lo classifica in base alla capacità di sequestrare CO2, crescendo, e non considera alcuna variabile di tipo socio-economico collegata alla presenza di comunità locali che potrebbero subire danni a causa di eventuali restrizioni nell’uso del bosco o, anche, dal cambiamento nel tipo di bosco (quando si passa da una superficie “naturalmente boscata” a una piantagione). La lettera critica apertamente le iniziative di ri-forestazione o gestione controllata dei boschi che vengono definite con l’acronimo “REDD+”, ovvero -nella definizione dell’Italian Climate Network- “progetti che mirano a proteggere e ricostituire aree forestali in modo sostenibile, nonché ad attuare altre opere di mitigazione legate al ripristino degli ecosistemi”. Due le possibili conseguenze: da un lato, le azioni di ri-forestazione possono rappresentare anche l’ingresso di piantagioni industriali su larga scala; dall’altro, gli esseri umani che vivono nelle aree “beneficiare” dei progetti non rappresentano in alcun modo un elemento centrale dell’analisi d’impatto, come dimostrano numerose denunce di organizzazioni della società civile: è dettagliata e circostanziata, ad esempio, nel rapporto di Counter Balance e Re:Common dedicato al Kasigau Corridor REDD+ in Kenya, la denuncia degli effetti sulle comunità locali di pastori di etnia Taita e Duruma.
Sempre in Africa, sta per partire l’iniziativa AFR100, un mega-programma della Banca mondiale da un miliardo di dollari che dovrebbe andare a “rigenerare” ben 100 milioni di ettari di superfici considerate degradate. Secondo i firmatari della lettera, però, l’African Forests Restoration initiative potrebbe rappresentare solo l’ennesima scusa per allargare la frontiera delle piantagioni. A meno che la FAO non modifichi, immediatamente, la propria definizione di bosco, quella adottata anche dalla Banca mondiale.
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