Economia / Opinioni
Banche salvate: dopo il sacrificio è tempo di allentare i vincoli
Gli istituti di credito italiani sono stati “risanati” in larga misura con capitale privato e con tanti sacrifici di un insieme non trascurabile di risparmiatori. Ora che il risultato è in parte raggiunto è urgente tornare a fare politica creditizia, uno degli snodi decisivi della ripresa del Paese. L’analisi di Alessandro Volpi
Nelle settimane scorse sono emersi due dati rilevanti in relazione all’andamento dell’economia italiana. In una lectio magistralis tenuta all’Università di Roma il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha tracciato un’analisi dello stato di salute del sistema creditizio del nostro Paese, arrivando alla conclusione che la fase più critica sembra essere passata e i costi sostenuti dalla finanza pubblica per evitare pericolosi tracolli di singoli istituti sono risultati decisamente più bassi rispetto ad altre realtà europee.
Secondo Visco, infatti, il peso dei crediti deteriorati sui bilanci delle banche italiane si è ridotto in maniera significativa; i crediti “non performanti” -quelli maggiormente a rischio- sono scesi, secondo i dati in possesso del governatore, da quasi 200 miliardi di euro a circa 135, con una diminuzione importante rispetto al picco del 2015. Al tempo stesso il capitale di migliore qualità, rappresentato principalmente dal capitale ordinario versato, è salito al 13,8% degli attivi ponderati per il rischio contro lo 0,7% del 2008. Simili miglioramenti sono avvenuti, come accennato, con un impatto sul debito pubblico italiano che alla fine del 2017 è risultato pari all’1,3% del Pil a fronte di una media superiore al 5% nel resto dell’area euro.
Dunque, sulla base delle cifre fornite da Visco, le banche italiane paiono destinate a un futuro meno tribolato e sono costate, in termini di salvataggi pubblici, ai contribuenti italiani meno di quanto non siano costate ai contribuenti degli altri Paesi i salvataggi delle loro banche “nazionali”. Il secondo aspetto appare invece almeno parzialmente incoerente con il dato appena citato relativo alle banche. Il deficit strutturale italiano è cresciuto di più di quello di molti Paesi europei ed è stato accompagnato da una crescita del Pil inferiore. Secondo i dati della Commissione europea, tale deficit, che misura il disavanzo al netto delle oscillazioni temporanee del ciclo economico, è aumentato dell’1,1% del Prodotto interno lordo, pari a circa 20 miliardi di euro, nel periodo compreso tra il 2014 e il 2017. Nello stesso arco di tempo, il deficit strutturale è diminuito in ben 10 Paesi dell’Unione, con evidenti riduzioni in Francia, dove si è contratto dello 0,6% e in Belgio, con un abbattimento dell’1,6%, mentre negli altri è rimasto sostanzialmente stabile con le sole, significative eccezioni di Italia e Spagna.
Sulla base dell’andamento di questo dato, dunque, risulta chiaro che l’Italia ha utilizzato, nello sforzo di uscire dalla crisi, le leve della finanza pubblica in misura maggiore di quanto non sia avvenuto in altri Paesi europei, beneficiando molto di più dei margini di flessibilità sui conti concessi dalla Commissione europea. Se questa considerazione si lega alle valutazioni sopra espresse sulle condizioni delle banche italiane è possibile approdare alla conclusione che il deficit strutturale è salito nelle fasi più acute della crisi ma un simile balzo non è dipeso dal costo dei salvataggi bancari. In quest’ottica, l’Italia rappresenta quindi una doppia anomalia; registra infatti più spesa pubblica in deficit rispetto all’Europa ma un minor costo dei salvataggi bancari rispetto a gran parte degli altri Paesi. Una simile scelta di allargare le maglie dei conti pubblici non ha però prodotto risultati significativi. Dal 2014 al 2017, l’Italia è cresciuta solo del 3,5%, mentre la Germania ha registrato una crescita del 7,7, la Spagna del 7,6, la Francia del 4,8 e l’Olanda del 9%: più in generale in quella fase il nostro Paese è cresciuto meno della metà della media dell’Unione europea.
Quali possono essere le conclusioni suggerite da questa breve analisi di due dati rilevanti dell’economia italiana? È palese che il deficit spending, la spesa pubblica in deficit, non aumenta ipso facto la crescita economica e dunque non pare essere la ricetta migliore per la ripresa. Potrebbe avere un senso, invece, trarre una lezione dal dato bancario; le banche sono state risanate in larga misura con capitale privato e con tanti sacrifici di un insieme non trascurabile di risparmiatori. Questa migliorata condizione consentirebbe di applicare a tali istituti un trattamento diverso rispetto a quello ancora fissato dai vincoli europei, che rischiano di appesantirle inutilmente. Prendendo in esame ancora il periodo 2014-1017, emerge una chiara flessione del credito al settore privato che si è ridotto in Italia del 12,5% mentre in Germania cresceva del 9,3% e del 14 in Francia. Ciò è dipeso da molteplici fattori, a cominciare dalle ridotte dimensioni delle imprese, ma certamente un peso rilevante nella minore erogazione di credito dipende dai vincoli europei, posti per risanare i bilanci bancari. Adesso che il risultato è almeno in parte raggiunto, limitare tali vincoli significa tornare a fare politica creditizia che rappresenta uno degli snodi decisivi della ripresa del Paese.
Università di Pisa
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