Banche e risparmio, conflitto d’interesse – Ae 48
Numero 48, marzo 2004I controlli sono stati inefficaci ma perché, fin che dura, il sistema bancario ha tutto l'interesse a lasciare in vita la gallina dalle uova d'oro. Il collocamento dei titoli (i famigerati bond) fa gola a tanti La…
Numero 48, marzo 2004
I controlli sono stati inefficaci ma perché, fin che dura, il sistema bancario ha tutto l'interesse a lasciare in vita la gallina dalle uova d'oro. Il collocamento dei titoli (i famigerati bond) fa gola a tanti
La creazione di un comitato dei creditori della Parmalat ha ufficializzato quello che era già emerso in queste settimane che hanno visto il crollo della multinazionale alimentare di Collecchio: Parmalat otteneva credito presso le maggiori banche mondiali. Gli istituti esteri più esposti sono Citigroup, Credit Suisse First Boston (Csfb), Bank of America e Société Générale, mentre le italiane risultano, in ordine di esposizione, Capitalia, Banca Intesa, San Paolo-Imi e Unicredit.
Come è possibile che la crema del sistema bancario internazionale si sia fatta ingannare da Calisto Tanzi e soci, che usavano falsificare non solo i bilanci ma perfino i fax?
Infatti non è possibile.
Non nel senso che le banche fossero “complici” della truffa. Più semplicemente nel senso che la truffa Parmalat ha un fondamento razionale: checché se ne dica, l'azienda andava male sul piano produttivo-commerciale e proprietà e management di fiducia hanno provato a raccontare balle ai mercati finanziari per evitare il crollo in Borsa e l'avvitamento della crisi.
Aspettavano che il vento cambiasse direzione: hanno giocato d'azzardo e hanno perso. Ma mentre giocavano non hanno solo messo via qualcosa per la loro pensione. Hanno anche dato modo di guadagnare a banche, investitori, consulenti, società di revisione.
Sono stati carenti i controlli istituzionali, certo: e ora si discute di come riformarli. Ma i controlli di mercato sono stati inefficaci perché, fin quando durava, era meglio lasciare in vita la gallina dalle uova d'oro.
Il 9 gennaio scorso Bank of America, la seconda banca più grande del mondo, creditrice di Parmalat, ha strappato con una “mossa aggressiva senza precedenti” (lo afferma il Financial Times) l'incarico per un collocamento azionario da 600 milioni di dollari a Citigroup, il maggior istituto di credito mondiale, anch'esso creditore, e perfino partner societario negli Usa, del gruppo di Collecchio. In gioco ci sono i consistenti guadagni da commissioni che queste operazioni comportano.
Ecco perché non potevano che destare interesse le 37 emissioni obbligazionarie che il gruppo Parmalat ha effettuato tra il 1998 e il 2003. La Parmalat di Calisto Tanzi era un'azienda in espansione sul mercato italiano e su mercati esteri, soprattutto nel campo del latte e latticini e soprattutto in America Latina. La crescita avveniva per acquisizione e incorporazione di aziende locali, accompagnata da strategie aggressive nei prezzi che mettevano in difficoltà i concorrenti più piccoli.
Per acquisire però ci vogliono fondi. Pur quotando l'azienda in Borsa, Tanzi non aveva nessuna intenzione di perdere il controllo facendo entrare nuovi soci con nuovo capitale. Quindi l'allargamento del capitale sociale aveva dei limiti. Diverso era il caso dei bond: si trattava di farsi prestare del denaro da banche e risparmiatori, remunerandolo naturalmente in modo allettante.
In sei anni Parmalat e le sue controllate emettono obbligazioni per 7 miliardi 692 milioni di euro. Il collocamento di questi titoli fa gola a molte banche. Tra le capofila troviamo nei primi anni la svizzera Ubs e la statunitense Merril Lynch, poi spuntano la britannica Barclays, Jp Morgan e Morgan Stanley (Usa), Deutsche Bank e le italiane Unicredit, Banca Imi (San Paolo), Caboto sim (Banca Intesa), Monte dei Paschi di Siena, Banca Akros (Popolare di Milano).!!pagebreak!!
Le banche in Italia si stanno concentrando. I primi tre gruppi -Banca Intesa presieduta da Giovanni Bazoli, il San Paolo-Imi di Stefano Rainer Masera e Unicredit guidato da Alessandro Profumo- coprono metà della raccolta di risparmio complessiva. I primi dieci gruppi arrivano all'84%. Non è facile oggi farsi concorrenza sui tassi di interesse; la gara è invece sulla “raccolta indiretta”, il risparmio investito sui mercati finanziari, e su commissioni e proventi da servizi.
Tutti i grandi gruppi hanno ormai una raccolta indiretta molto superiore a quella diretta (depositi, conti correnti, titoli della banca). A livello di sistema siamo al 54% di risparmio gestito e amministrato contro il 46% di risparmio depositato. Questo si riflette sui conti economici delle banche nella crescita dei ricavi da servizi rispetto alle entrate da interessi.
Il gruppo Intesa guadagna (al 30 settembre 2003) circa 4 miliardi di euro di margine di interesse (differenza tra interessi sui prestiti e interessi sui depositi), in calo rispetto all'anno prima, e 2 miliardi e mezzo di commissioni nette, in aumento. Per San Paolo-Imi i dati sono 2,9 miliardi di margine di interesse (+2,6% rispetto all'anno precedente) e 2,2 miliardi di commissioni nette (+6,5%). Unicredit incassa 3,6 miliardi di interessi netti (-4,8%) e 2,5 miliardi di commissioni (+1,4%).
I dipendenti vengono spronati a vendere titoli e fondi con premi in denaro e perfino in natura (automobili), come denunciato recentemente dalla Fiba Cisl (cfr. articolo qui sotto). Così Intesa si ritrova, per ammissione dell'amministratore delegato Corrado Passera, 14 mila clienti che detengono bond Parmalat per un valore di circa 300 milioni. I clienti San Paolo-Imi con le obbligazioni bruciate sono 1.800, mentre quelli Unicredit sono esposti per 350 milioni di euro. Senza considerare i due altri casi clamorosi di default: Cirio e Argentina.
Ma oltre alle operazioni di collocamento c'erano i prestiti che comunque a Parmalat non sono mancati. Qui la parte del leone l'ha fatta Capitalia, cioè il gruppo Banca di Roma di Cesare Geronzi: complessivamente 484 milioni di euro.
Ma per Capitalia gli elementi di conflitto di interesse, nodo cruciale dello scandalo Parmalat, sono numerosi. Calisto Tanzi era, ancora un anno fa, nel consiglio di amministrazione della banca.
Mediocredito Centrale, controllato da Capitalia, ha un'esposizione di 15 milioni di euro nei confronti di società Parmalat, mentre nella relazione al bilancio 2002 della multinazionale parmense si annunciava l'entrata nella compagine sociale di Mediocredito con l'1,5% del capitale, circa 18 milioni di euro.
Insomma che ci siano state carenze di controlli istituzionali nel caso Parmalat è vero, anche se le soluzioni prospettate dal ministro Tremonti, che metterebbero Banca d'Italia e Consob, la Commissione di sorveglianza della Borsa, sotto la tutela del governo, vanno nella direzione opposta alla trasparenza.
Ma i problemi più grossi messi in luce dallo scandalo sono comportamenti e strategie soprattutto finanziarie oggi “normali” per banche e imprese.!!pagebreak!!
11 settembre 2003: Parmalat approva il bilancio del primo semestre 2003. Fatturato e utili in calo, ma a detta dei vertici dell'azienda i margini operativi tengono. È l'ultimo bilancio ufficiale, e falso, come poi si scoprirà.
31 ottobre 2003: i revisori della Deloitte & Touche rilevano nel bilancio semestrale la “non disponibilità di informazioni dettagliate” sull'investimento di Parmalat da 478 milioni di euro nel fondo Epicurum, con sede nelle Isole Cayman. L'investimento è definito a bilancio “attività finanziaria che non costituisce immobilizzazione”, in sostanza soldi prontamente liquidabili.
11 novembre 2003: il titolo Parmalat crolla in Borsa dopo la diffusione delle notizie sul fondo Epicurum.
12 novembre 2003: Parmalat annuncia la liquidazione dell'investimento in Epicurum.
4 dicembre 2003: i soldi di Epicurum non arrivano.
14 dicembre 2003: Enrico Bondi subentra a Calisto Tanzi alla presidenza di Parmalat.
18 dicembre 2003: la Bank of America comunica che il conto corrente da 3,95 miliardi di euro della Bonlat, società delle Cayman controllata da Parmalat, è un falso. Esposto della Consob alla magistratura. I debiti del gruppo ammontano a oltre 11 miliardi di euro mentre la liquidità si rivela praticamente inesistente.
27 dicembre 2003: Calisto Tanzi viene arrestato a Milano.
Se vendi bene ti regalo la Ferrari
La denuncia è arrivata il 22 gennaio a Roma, al convegno su “Etica senza retorica” promosso da Adiconsum, l'Associazione consumatori vicina alla Cisl.
“Per incentivare la vendita di prodotti finanziari, c'è stato chi ha promesso la Ferrari al dipendente che faceva i volumi maggiori” ha raccontato Mario Mocci, della segreteria nazionale della Fiba, i bancari cislini. Mocci ha presentato un'inchiesta sull'etica nei comportamenti bancari effettuata dalla Fiba in Emilia Romagna.
Tra metà settembre e metà ottobre 2003 è stato distribuito un questionario in 12 mila copie in tutte le province e le aziende bancarie della regione. A novembre è stato elaborato e analizzato un campione di 500 questionari da cui sono emersi dati molto significativi.
Il 95% dei bancari che hanno risposto ritiene che le aziende siano tenute ad un comportamento socialmente responsabile, il 94% pensa che l'etica dovrebbe “contaminare” economia e finanza e il 72% giudica questa contaminazione effettivamente possibile.
Ma il quadro di quello che avviene nella pratica è completamente diverso.
Alla metà circa degli intervistati è capitato che fosse indicata “dall'alto” una fascia di clientela debole a cui piazzare certi prodotti. Il 45% ha venduto prodotti giudicati inadatti e tra essi il 75% dichiara di aver avuto problemi di coscienza.
Un terzo di coloro che si sono rifiutati di vendere ad ogni costo ha subito ripercussioni negative.
Secondo il 54% dei bancari, le aziende che hanno fissato codici di comportamento per i dipendenti non si attivano per verificarne il rispetto.
A giudizio dei lavoratori intervistati, a trarre guadagno dai sistemi premianti applicati in azienda è soprattutto il top management (media del 4,5 su una scala di 5 punti). Segue l'azienda in quanto tale (3,6), gli azionisti (3,4) e i quadri intermedi (3,2), mentre gli altri dipendenti si fermano a quota 1,7 e i clienti a 1,6.
In sostanza queste ultime due categorie ci perdono. Tra l'altro, per il 71,9% il sistema premiante incide negativamente nei rapporti fra colleghi.
Il 74% delle risposte valuta “di corto respiro” i sistemi premianti. Il 93% degli intervistati sta vivendo o ha appena vissuto fusioni o ristrutturazioni e i risultati sono giudicati negativi per i lavoratori (75%) e per i clienti (70%).
Secondo la Fiba Cisl “la smania di adeguarsi al mercato ha indotto molte aziende a perseguire obiettivi di corto respiro, determinando disaffezione nella clientela e anche in una percentuale imponente della risorsa più importante delle banche: i lavoratori”. !!pagebreak!!
Il “buco nero” di Parmalat alle Cayman
Oltremare, paradiso e inferno
La sede della Bonlat Financing Corporation, il buco nero del gruppo Parmalat, si trova nel più grande paradiso fiscale e societario del mondo, le Isole Cayman, nei Caraibi, “territorio d'oltremare” della Gran Bretagna. Su un'area di appena 262 chilometri quadrati, con 42 mila abitanti, hanno sede più di 40 mila imprese registrate, tra cui 600 banche, con 800 miliardi di dollari di raccolta tra depositi e titoli, 900 fondi di investimento e 400 compagnie di assicurazione. Tra esse la Bonlat era in buona compagnia di quelle stesse banche italiane che finanziavano il gruppo di Collecchio.
I crediti bancari italiani alle Cayman ammontano a oltre 5 miliardi di dollari. È la maggiore destinazione -quasi la metà del totale- tra i 12 miliardi di dollari di capitali bancari affluiti nei “rifugi fiscali”, come li chiama l'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.
Seguono le Bahamas con 3,8 miliardi di dollari, le Isole del Canale della Manica, Jersey con quasi 1 miliardo di dollari e Guernsey con 400 milioni, le Antille Olandesi con 364 milioni e le Isole Vergini Britanniche con 330 milioni di dollari.
A Georgetown, capoluogo delle Cayman, hanno sede, tra le altre, Intesa Bank Overseas ltd (gruppo Banca Intesa), Mediobanca International Limited (Mediobanca), la filiale della Banca di Roma (gruppo Capitalia). Altri preferiscono le Bahamas, come il San Paolo-Imi, o le Antille Olandesi, come la Bnl.
L'Ocse sta provando da qualche anno a mettere alle strette i paradisi fiscali minacciando sanzioni se entro il 31 dicembre 2005 non vengono superate le “pratiche fiscali dannose”.
Il 18 maggio 2000 il Governatore delle Isole Cayman Peter Smith scriveva al Segretario dell'Ocse Donald Johnston: “Ho piacere di informarla che le Isole Cayman con la presente si impegnano per l'eliminazione delle pratiche fiscali che siano considerate dannose in accordo con il rapporto Ocse”. Ma la Bonlat ha continuato a lavorare fino alla fine del 2003.
Off shore, luoghi a delinquere
“Esperto di paradisi fiscali”. La battuta del governatore della Banca d'Italia, Fazio, su Giulio Tremonti, superministro dell'Economia del governo Berlusconi ha fatto il giro del mondo. Ma il problema dei paradisi fiscali (offshore) non riguarda solo l'Italia. Prima dell'11 settembre la battaglia contro questi “luoghi a delinquere” era stata lanciata da Attac e dai movimenti che contestano la globalizzazione neoliberista (ma la necessità di “normare” i paradisi fiscali era sostenuta anche dall'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici). Dopo l'11 settembre e la guerra al terrorismo anche i governi si sono svegliati. Ma, come ben si vede, l'obiettivo della trasparenza dei mercati finanziari resta, per industria e finanza, un obiettivo “non strategico”. Anzi.!!pagebreak!!
I più grandi nel mondo
Statunitensi in ascesa, giapponesi in declino, europee che si barcamenano.
È la fotografia delle maggiori banche mondiali pubblicata, come ogni anno, da The Banker, il mensile del Financial Times. Ma la tendenza che prevale è quella alla concentrazione.
Le prime 25 banche del pianeta raggruppano il 38,1% delle attività bancarie totali (era il 36,9% l'anno precedente) e il 34,35% del capitale proprio.
Al primo posto incontrastata Citigroup, la più grande banca nel mondo per capitale proprio (59 miliardi di dollari), capitalizzazione di Borsa (234 miliardi), attività (1.097 miliardi) e profitti, quasi 23 miliardi pari al 38,8% del capitale.
Altri cinque istituti di credito Usa sono tra le prime 25 banche mondiali: la Bank of America, seconda per capitale proprio, Jp Morgan, Bank One, Wells Fargo e Wachovia.
Viceversa sono in calo, e in perdita, le banche giapponesi, prima tra tutte Mizuho, leader fino all'anno precedente per attività totali.
Oggi ci sono quattro istituti giapponesi tra i primi 25, mentre dieci anni fa erano 11 su 25, di cui 6 ai primi posti. Tra le banche in crescita, la Royal Bank of Scotland, nuova entrata tra le prime dieci per profitti e per capitale proprio.
Restano in auge la britannica Hsbc, seconda per capitalizzazione di Borsa con 133 miliardi di dollari, la svizzera Ubs, terza per attività complessive con 852 miliardi, e la francese Crédit Agricole, principale azionista di Intesa, il maggiore gruppo bancario italiano.
Più debole invece la tedesca HypoVereinsbank e le due principali banche cinesi, Bank of China e Icbc.