Esteri / Reportage
Amman: l’ospedale dove rinascere. Nonostante guerra e terrore
In Giordania, Medici Senza Frontiere gestisce un centro di chirurgia ricostruttiva dal 2007 che accoglie le vittime di tutti i conflitti regionali in Medio Oriente. In dieci anni ne ha curate oltre 4.400. Le storie di chi non ha perso la speranza di una nuova vita
Gli occhi di Amal brillano di fronte alla miriade di tessuti colorati che ha davanti agli occhi. Quasi non ci crede. Al mercato di Amman, insieme alla mamma, sta scegliendo la stoffa per cucire un vestito alla sua cuginetta che non vede l’ora di rivedere a casa, a Kirkuk, in Iraq. Finalmente le sue mani hanno ripreso con la stessa velocità di un tempo a tenere e passarsi ago, filo, forbici, ed anche senza macchina da cucire, in pochi giorni il vestito è pronto da mettere in valigia per il suo prossimo ritorno.
Amal è una dei 4.400 pazienti passati all’ospedale di chirurgia ricostruttiva di Medici Senza Frontiere (MSF) ad Amman, in Giordania, che nel 2017 ha festeggiato i suoi dieci anni di attività. Come il 60% dei pazienti, Amal è irachena. Nell’agosto 2014 al mercato di Kirkuk una bomba esplosa davanti a lei e sua nonna aveva dato fuoco al suo petto e al suo collo. “Nel panico e nel dolore del momento -racconta Amal- mia nonna mi ha urlato di spegnere il fuoco dal petto e ho istintivamente e velocemente avvicinato le mani come per scacciarlo e così mi sono ustionata anche le mani”.
Ci sono voluti due anni di chirurgia plastica per poter riprendere il suo lavoro da sarta di cui vivevano lei e il figlio in Iraq. Adesso Amal può tornare a casa e ricominciare una vita, insieme al figlio che per anni non ha riconosciuto il suo volto ustionato, o meglio si spaventava, piccolo com’era. Chi sia il colpevole di quella bomba, ancora lei non lo sa: potrebbe essere stato l’ISIS che per anni, e tutt’oggi, oltre alla conquista delle città, oggi liberate dall’esercito iracheno col supporto della coalizione internazionale, alla repressione, ai massacri e alle battaglie di campo, ha terrorizzato milioni di persone con i suoi attentati nelle piccole e grandi città.
In questi dieci anni di attività, fino alla metà del 2017, MSF ha compiuto con successo in Giordania tramite il programma di chirurgia ricostruttiva 9.704 operazioni di chirurgia plastica, ortopedica, maxillo-facciali, accogliendo nel suo ospedale pazienti da tutte le guerre in Medio Oriente: Iraq, Siria, Yemen e Gaza, in ordine di presenza numerica maggiore. Bastano questi numeri per rendersi conto come l’abnormità di questi conflitti regionali causi una sofferenza di lunga durata nelle vittime, in maggioranza civili innocenti. L’esperienza pluridecennale di MSF nelle operazioni di chirurgia ricostruttiva per i feriti di guerra ha creato un centro chirurgico di alto livello, con medici, infermieri terapeuti giordani e i chirurghi giordani e iracheni; e un tipo di cura onnicomprensiva che include fisioterapia e psicoterapia per i suoi pazienti che per mesi sono costretti a un letto e un corridoio di ospedale. MSF ogni giorno accoglie nuovi pazienti, in media ogni mese ce ne sono circa duecento; molti di loro tornano in ospedale a più riprese perché sottoposti ad operazioni chirurgiche in tempi diversi e perché anche la fisioterapia nei pazienti ortopedici necessita del tempo. Sono delle sezioni di MSF nei diversi Paesi -a Sana’a e Aden in Yemen e a Baghdad e Kirkuk tra le altre in Iraq- a indicare ai colleghi in Giordania i casi più difficili di cui spesso nei Paesi di provenienza non si possono curare al meglio. Per il numero enorme di vittime civili dei conflitti, MSF riesce a coprire soltanto una bassissima percentuale delle richieste ed urgenze riportate.
Pur avendo lasciato da tempo l’ospedale, Mohammed e suo padre hanno affittato una piccola casa due isolati più avanti. Le cure che ancora Mohammad necessita non lo fanno allontanare di molto, ma la sua vita è completamente rivoluzionata. “Quando sono entrato in Giordania, da profugo siriano, con la kefia mi coprivo la faccia per la vergogna del mio volto” confessa Mohammad. “Oggi ho imparato che i sogni si possono realizzare e vorrei ritornare in Siria un giorno dalla mia famiglia, dai vicini e naturalmente anche dalle mie pecore”. Giovane pastore ventenne dalla provincia di Homs, nel 2013 era al pascolo in campagna quando si è ritrovato per caso nel campo di battaglia tra esercito siriano e forze ribelli. “Le bombe non guardano in faccia nessuno, uccidono uomini e animali. Una granata mi è scoppiata in faccia, smantellandomi mandibola e denti.”
La guerra in Siria, giunta quasi al suo settimo anno, ha causato quasi mezzo milione di morti, delle stime attuali sulle morti finora attestate, cinque milioni di rifugiati nei Paesi limitrofi e in Europa, e sette milioni di sfollati interni al Paese: significa che metà della popolazione siriana non vive più nelle proprie case. Di feriti, se ne contano oltre un milione, e Mohammad è il fortunato uomo, rinato dopo aver visto la morte in faccia, in forma di granata. Dopo 35 operazioni maxillo-facciali e ormai tre anni di cure, Mohammad ha ripreso a mangiare regolarmente e in questi anni ha utilizzato il suo tempo di cure mediche per migliorare a leggere e scrivere insieme ai compagni di ospedale.
Anche la piccola Manal grazie all’amicizia e compagnia con altre bimbe e bimbi dell’ospedale passa giornate di giochi imperdibili. In particolare, il lunedì pomeriggio, quando una volontaria francese, Isabel, viene a tenere il corso di musica. “Mi piace tenere la chitarra, vorrei imparare a suonare e raccontare le storie”. Così dice la piccola Manal, undici anni, originaria di Hawija, una città per anni in mano all’ISIS e oggi libera, da cui Manal era fuggita con la famiglia verso Kirkuk. L’esplosione di un missile nel 2015 le ha rovinato il volto. Finalmente Manal può chiudere gli occhi serena: paziente com’è, non si è mai troppo lamentata, ma le bruciature sul volto e in particolare sulle palpebre le hanno impedito per due anni di dormire come tutti i bambini, svegliandosi di ora in ora. Con la fisioterapia, impara a muovere, lentamente, le palpebre, e il massaggio attorno agli occhi le dà sollievo.
Ma se in Iraq vibra negli ultimi mesi un poco di speranza dopo la liberazione delle città dall’ISIS e tutti i pazienti sono in grado di tornare, non conviene più andare a casa a Qatada, giovane yemenita che ha lasciato il suo Paese in fiamme e dopo l’ultima visita alla moglie e ai due figli, ha deciso di non rischiare più. “Spero che siano loro a potermi raggiungere e potremmo viaggiare verso un Paese europeo”. Qatada ha perso una gamba nell’esplosione di una mina nella città portuale di Aden mentre guidava l’auto per andare al lavoro e la seconda gli è stata amputata in un ospedale locale. Aveva anche le braccia e le mani ustionate. In quell’ultima visita in Yemen, Qatada e la moglie hanno concepito il loro terzo figlio che oggi ha un anno. Il ritorno in Giordania è stato però necessario, nonostante il figlio appena nato, per la serie di cure e operazioni plastiche a cui continua ad essere sottoposto. La funzionalità delle mani e braccia riacquisita e la gioia che lo anima, è il segno di una rinascita che per Qatada si è manifestata proprio con la nascita di suo figlio, una nuova vita.
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