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Haiti senza pace, il racconto dall’isola che prova a resistere dieci anni dopo il terremoto
In uno dei Paesi più poveri delle Americhe, la popolazione manifesta contro la classe politica compromessa e l’assenza di diritti fondamentali, come l’accesso alle cure. A dieci anni dal sisma, il sistema sanitario è al collasso mentre il 59% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. La missione della comunità camilliana tra Jérémie e la capitale Port-au-Prince
“Il centro città è invaso da una cortina tossica causata dai lacrimogeni lanciati dalla polizia e dal fumo di pneumatici in fiamme che sbarrano la circolazione. Una situazione che obbliga centinaia di persone, tra cui molti bambini, ad abbandonare interi quartieri e a cercare aiuto nell’ospedale cittadino, impreparato a gestire qualsiasi emergenza”. A raccontare la guerra civile in corso ad Haiti è Massimo Miraglio, sacerdote camilliano che da quindici anni è braccia e mente di un progetto umanitario e socio-assistenziale sostenuto dalla comunità camilliana e dall’associazione Madian Orizzonti tra la città di Jérémie e la capitale Port-au-Prince.
Il 10 gennaio 2010 Haiti è stata colpita da un terremoto di magnitudo 7.0. Ancora oggi, gran parte degli abitanti è senza casa e le infrastrutture sono pressoché inesistenti. Secondo quanto si legge nel rapporto “Haiti dopo dieci anni” di Medici Senza Frontiere, il sistema sanitario nazionale è al collasso: sull’isola le strutture mediche sono estremamente deteriorate e per la popolazione permangono difficoltà di accesso alle cure, troppo costose. Stando all’indagine dell’organizzazione si è registrato un aumento del 35% del prezzo dei farmaci e del 26% del costo per un ricovero ospedaliero. Al mal funzionamento delle strutture mediche si aggiungono i dati economici. Secondo la Banca Mondiale, il 59% della popolazione vive al di sotto della soglia nazionale della povertà e il 24% al di sotto della soglia nazionale della povertà estrema. Un dato che rende Haiti uno Paesi più poveri delle Americhe. Su un’isola a soli dieci centimetri di distanza dall’Italia sul mappamondo, il 90% delle persone vive in baraccopoli senza acqua, luce e strade.
Sempre nel 2010, Port-au-Prince è stata travolta da una fortissima epidemia di colera che ha invaso rapidamente diverse zone della città, piegando la comunità locale: alla fine del 2011, 52mila persone avevano contratto la malattia e 7mila hanno perso la vita.
Nell’ottobre 2016, il Paese è stato poi stravolto dall’uragano Matthew che ha colpito la zona più a Sud e in particolare la regione di Jérémie (la Grand’Anse), causando danni enormi in tutta l’area. L’uragano ha lasciato dietro di sé un migliaio di morti, molti feriti e una distruzione del territorio visibile ancora oggi. Dodici ore di tempesta e venti a 350 chilometri orari hanno svilito e compromesso un paesaggio fatto di fiumi, vegetazione rigogliosa e villaggi: l’80% delle case di Jérémie e di altre cittadine costiere sono state scoperchiate con scuole, chiese e luoghi pubblici rase al suolo o danneggiate gravemente. Le zone più basse lungo la costa sono state inondate e completamente distrutte. Le precarie infrastrutture (luce, acqua, telefono), già danneggiate dal terremoto, sono state spazzate via rompendo tutti i tipi di comunicazione.
Da quando è scoppiata la guerra civile, ad agosto 2019, il bilancio delle vittime è salito a 20 morti e oltre 200 feriti. Uno scontro violento che prosegue la lunga storia di scontento alle dittature che hanno sempre prevalso nel Paese, dotato di una grande resilienza ai cambiamenti e ai disastri e che duecento anni fa si è liberato dalla schiavitù. Dal 1957 al 1986, Haiti ha vissuto la dittatura della famiglia Duvalier, tra Papa Doc e il figlio Jean- Claude, fase storica seguita da colpi di Stato e malcontento. E poi la fuga di Jean-Bertrand Aristide, ex prete e leader popolare che ha governato dal 1991 al 2004, quando è stato costretto a dimettersi e a lasciare l’isola per raggiungere la confinante Repubblica Dominicana in cerca di asilo politico in quanto fortemente osteggiato dalle élite, i narcotrafficanti e l’esercito contrari al suo operato politico. E infine la presidenza provvisoria di Alexandre Boniface e i marines mandati dall’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush per ristabilire ordine e pace, da allora stanziale simbolo del predominio degli Usa e degli strati sociali più abbienti sul Paese. Fino ad arrivare nel 2019 alla presidenza di Jovenel Moïse, dimessosi a ottobre poiché coinvolto in uno scandalo bancario legato al gruppo Petrocaribe: Haiti avrebbe dovuto acquistare petrolio al 60% del suo valore dal Venezuela ma il resto del denaro sparì, scomparso probabilmente già dal 2011 con l’amministrazione del presidente Michel Martelly. Inoltre, Moïse nel 2017 aveva aumentato del 50% il prezzo del cherosene, indispensabile per gli abitanti per luce, gas e trasporti. Una continua vessazione che nel 2018 ha portato la popolazione a iniziare le rimostranze per i soldi scomparsi di PetroCaribe, la carenza di carburante e l’incapacità del governo di gestire le enormi difficoltà in ogni settore, in particolare quello dei trasporti pubblici e dei servizi sanitari.
Ad Haiti gli scioperi e le violente proteste proseguono contro questa violazione della democrazia e dei diritti fondamentali dell’uomo. La corruzione tocca anche il mercato e l’economia, e la politica è inesistente. A ciò si aggiunge la svalutazione della moneta haitiana, che ha perso un terzo del suo valore con un’inflazione del 20%. Si scende in piazza perché è l’unica arma da usare contro la mancanza di carburante, lavoro e servizi primari e per ottenere un cambiamento radicale, impedito negli anni dalla forza decisionale delle élite e della politica anglofona e francofona, che non si è mai seriamente impegnata per risolvere la crisi. In un Paese dove l’80% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno, o poco meno, e dove è in atto una crisi umanitaria, che la si voglia vedere o no.
Anche a Jérémie, piccolo paese sul Mar dei Caraibi lontanissimo dai riflettori del turismo di massa della vicina Repubblica Domenicana, le manifestazioni continuano e paralizzano le attività pubbliche. Le scuole sono chiuse e la polizia fatica a tener il controllo. E la missione di Padre Massimo e dei camilliani è costretta a fermarsi per mancanza di materiale, interrompendo temporaneamente il cantiere dell’ospedale per la cura delle lesioni cutanee Saint Camille e i lavori di riabilitazione di alcune case rurali del progetto “Lakay se lavi” (“La casa è vita”), un progetto di ricostruzione di case contadine e strutture comunitarie distrutte dal passaggio dell’uragano Matthew. Il lavoro quotidiano di soccorso è svolto principalmente da parte di fondazioni benefiche, volontari e associazioni umanitarie come Medici Senza Frontiere che ha appena aperto, nell’area di Tabarre a Port-au-Prince, un nuovo ospedale traumatologico per le lesioni più gravi causate dalla violenza di queste continue repressioni a causa dell’assenza di un sistema pubblico in ogni settore. In questa crisi socio-economica Haiti è un Paese sostenuto per lo più da soldi derivanti da donazioni e raccolti con fatica.
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