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C’era una volta l’antipolitica

© Christopher Burns - Unsplash

Pd e 5 Stelle governano insieme, ma non bisogna dirlo. E per confondere l’elettorato spazio alla “programmite” e alla rarefazione dei piani politiciIl. Il civismo diventa la forma, e purtroppo solo quella, per mettere in gioco una neppure troppo sottile ipocrisia della politica destinata in primis a rendere inapplicabile l’aggressione antipolitica. Ecco fatto. Sicuri che funzioni? L’analisi di Alessandro Volpi

C’era una volta l’antipolitica, una pratica coltivata con cura da alcune forze di opposizione che disponeva di una lunga tradizione e aveva precise parole chiave. La tradizione, almeno quella più recente, risaliva ai polemisti di fine Ottocento, alle visioni di Alfredo Oriani, al dannunzianesimo, a vari aspetti del futurismo ed era approdata al fascismo “rivoluzionario” con la sua carica antiparlamentare finendo poi per tradursi nel “menefreghismo” con cui il fascismo regime intendeva mantenere in vita la propria versione populista.

Nell’immediato dopoguerra quella tradizione ha preso corpo nel qualunquismo di Giannini, in una visione antirepubblicana di nostalgie a destra, attentamente coltivata da riviste di larga tiratura come il “Candido” e il “Borghese”, mentre a partire dai decenni successivi ha cominciato ad assumere i tratti della aspra polemica anti-casta e antipartitocratica, le cui radici affondano nelle battaglie dei radicali. Dagli anni novanta, con l’incendio di Mani pulite, è stata celebrata dagli slogan contro “Roma ladrona” della prima Lega Nord per divenire poco dopo la sostanza identitaria dei coloriti strali nei confronti del sistema provenienti dal Movimento 5 Stelle animato dai feroci “Vaffa” di piazza. Su questa spinta Lega e 5 Stelle sono diventate forze di largo consenso e, in buona misura, sono riuscite a stare insieme in un governo retto, assai più che dai problematici punti del “contratto”, da una condivisa e gridata posizione avversa al Partito democratico, identificato come la forza portante del “Sistema”. Forse il solo denominatore comune dell’esecutivo gialloverde è stato proprio il lessico del populismo antipolitico. Ora tutto ciò sembra improvvisamente sparito.

L’antipolitica è in larga parte mutata in qualcosa di molto diverso. Già la Lega divenuta forza di governo ha abbandonato alcuni elementi del più tradizionale antiparlamentarismo, della lotta alla casta e alle melliflue seduzioni romane, sostituendoli con la celebrazione del sovranismo governista ancorato alla centralità del ruolo dello Stato in grado di promettere tutto a tutto. È venuta meno la retorica antipolitica delle colpe “sudiste”, degli “appetiti romani”, della “purezza padana” e del vasto repertorio di simboli che alimentavano la condanna delle comodità del potere. In tale ottica il nemico da abbattere non era più il “Sistema”, ma la minaccia dell’invasione, l’assalto dei migranti che poco avevano a che fare con i più consueti appelli antipolitici. Tuttavia il vero superamento dell’antipolitica si è consumato con la partecipazione di Pd, dei suoi scissionisti autoproclamatisi vitali, e dei 5 Stelle al nuovo governo. In questo caso non solo si è compiuta l’alleanza tra la forza da sempre considerata l’incarnazione della Politica-Sistema, con tutti gli annessi arnesi tipici dei poteri della casta, e la forza che si è fondata sulla costante crociata contro quel male assoluto, ma si sta procedendo a rimuovere anche i possibili riferimenti dell’antipolitica. In altre parole, si sta costruendo una narrazione pubblica in cui le due forze definibili in passato quasi esclusivamente per la loro ferma contrapposizione nascondono le proprie identità sotto mentite spoglie quando devono fare scelte comuni e, soprattutto, allorché devono presentarsi agli elettori, in modo da spuntare le armi dell’antipolitica che hanno a lungo frequentato. Pd e 5 Stelle governano insieme, però non bisogna dirlo: si tratta di una condivisione di intenti parlamentari, interpretati da un presidente del Consiglio che può ambire ad essere sia il leader dei 5 Stelle, sia di una nuova formazione propria, sia di un superpartito-Movimento, a seconda dei differenti punti di vista in una prospettiva che intende confondere l’elettorato puntando sulla “programmite” e sulla rarefazione dei piani politici; del resto la rimozione dell’antipolitica passa anche attraverso il continuo riferimento al definitivo approdo a soluzioni post-ideologiche per cui è possibile sostenere tutto e il contrario di tutto.

In tale ottica diventa così paradossalmente naturale che le componenti impegnate a sorreggere un simile governo parlamentare non mostrino alcuna intenzione di presentarsi alleate, con i propri simboli, alle varie tornate elettorali. Se devono stare insieme senza dirlo appare più opportuno inventarsi Patti civici, adoperando il civismo come lo strumento per evitare di far emergere le contraddizioni e le contaminazioni aborrite fino a pochi mesi fa. Il civismo diventa così la forma, e purtroppo soltanto la forma, per mettere in gioco una neppure troppo sottile ipocrisia della politica destinata in primis a rendere inapplicabile l’aggressione antipolitica. Contro chi dovrebbe esercitarsi l’antipolitica se il Sistema non c’è più e esistono unicamente espressioni civiche che si presentano alle elezioni senza coinvolgere direttamente i partiti di riferimento? Un Parlamentarismo un po’ trasformista e un civismo un po’ ipocrita sono due facce della stessa medaglia. Ma il futuro non avrebbe dovuto essere quello della democrazia diretta?

Università di Pisa

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