Ambiente / Reportage
Come salvare l’ultima grande isola equatoriale ancora vergine
Il prezioso ecosistema di Papua è messo a rischio dai piani di sviluppo del governo indonesiano sulle piantagioni, la rete stradale, l’energia e la costruzione dei porti. Uno sguardo antropologico alla scoperta delle forme di resistenza
Un atlante salverà Papua. Ostile per secoli a qualsiasi tentativo di mappatura e sfruttamento, al punto da spingere i suoi abitanti a divorare ritualmente i rari esploratori o missionari europei, la seconda più grande isola del mondo ha dovuto capitolare. Per quest’estate è infatti previsto il lancio del “Papua Atlas”: la prima piattaforma interattiva in grado di monitorare mensilmente la deforestazione dell’estrema provincia indonesiana, riportando la collocazione e la proprietà delle piantagioni di palma da olio o di legname da carta. Utilizza rilievi satellitari e ne incrocia i dati per smascherare filiere di frodo, tenendo anche un occhio vigile sull’espansione della nuova e contestatissima rete stradale. Il progetto è curato dal Centro per la ricerca forestale internazionale (cifor.org) e gode del supporto finanziario del Dipartimento britannico per lo sviluppo internazionale, ma non entusiasma affatto il governo di Jakarta. Appoggiata dalla Malesia, l’ex colonia olandese è già ai ferri corti con l’Unione europea a causa della decisione di non considerare più l’olio di palma come biocarburante, un business che porta nelle casse dell’Indonesia circa 17,2 miliardi di dollari l’anno e garantisce 17 milioni di posti di lavoro. “Entrambi i nostri governi -hanno denunciato il presidente dello stato-arcipelago Joko Widodo e il primo ministro malesiano- vedono quest’atto come una deliberata, calcolata e avversa strategia economica per rimuovere l’olio di palma dal mercato europeo, andando contro i principi di libero mercato della World Trade Organization”.
A fine febbraio, la Commissione europea ha infatti proposto che l’uso dei biocarburanti, responsabili di un’eccessiva deforestazione, sia azzerato entro il 2030, subendo di riflesso il boicottaggio dei propri prodotti da parte delle potenze asiatiche. Dal punto di vista economico, l’arrivo del Papua Atlas non può che peggiorare la situazione. “Papua è forse l’ultima grande isola equatoriale ancora vergine”, ha commentato David Gaveau, ricercatore associato del Cifor, all’ultima Conferenza internazionale sulla biodiversità di Manokwari, sulla costa Nord occidentale. Con il collega Mahammad Agus Salim, Gaveau è l’inventore del Papua Atlas. “Il suo territorio è per il 90% coperto da foresta primaria e ospita solo piccole comunità di popolazioni indigene -spiega-. Con la graduale scomparsa di terreni coltivabili nel Sud-Est asiatico, le grandi compagnie hanno però messo gli occhi su quest’ultimo paradiso, puntando a connettere la metà indonesiana dell’isola con la Nuova Guinea attraverso lo sviluppo di ampie arterie stradali. Grazie al Papua Atlas, che riprende e perfeziona il nostro analogo progetto ‘Borneo Atlas’, i governi locali e nazionali dell’Indonesia possono controllare le impronte della deforestazione illegale o su concessione, rivedendo gli eventuali permessi rilasciati”, conclude Gaveau. Nel 2015 West Papua è stata riconosciuta “provincia di conservazione”: un provvedimento governativo che ha iniziato a frenare il consumo di suolo (-60% rispetto agli anni precedenti), dopo le pesanti perdite di 98mila ettari nel 2015 e altri 85mila nel 2016. Nonostante questo, i continui trasferimenti di “coloni agricoli” stanno incrinando i suoi delicati equilibri ecosistemici. Protagonisti sin dagli anni 60 del progetto Transmigrasi (finalizzato al popolamento dell’isola), i residenti di origine javanese reclamano oggi infrastrutture per potersi approvvigionare più facilmente e spostarsi via terra anziché in aereo, non dovendo così dipendere dall’unico centro di Papua paragonabile a una città: Jayapura. Soddisfare le loro richieste significa però dover prolungare di 3.862 chilometri i brevi tratti stradali presenti in alcuni punti della costa, tagliando l’interno selvaggio dell’isola e compromettendo bioriserve uniche al mondo, come il Lorentz National Park.
Un recente studio di William Laurence, professore australiano titolare della Prince Bernhard Chair in Conservazione della natura all’università di Utrecht, ha dimostrato che il progetto della Trans Papua Highway presenta almeno tre punti insostenibili di alterazione del territorio. Il primo riguarda proprio i 2,35 milioni di ettari del parco nazionale, dove trova rifugio l’80% dei mammiferi nativi dell’isola, per via dell’impatto delle attività estrattive avviate in West Papua a macchia di leopardo. Il secondo bacino di crisi interessa invece l’area Sud-Est, dove sono presenti paludi e terreni torbosi sviluppatisi in migliaia di anni: un ecosistema tanto raro quanto delicato, la cui acidità si rivelerebbe nefasta per le attività agricole previste, portando alla rapida scomparsa delle barriere coralline e della peculiare fauna ittica. L’alto tasso di carbonio imprigionato in questi terreni, inoltre, finirebbe per riversarsi nell’atmosfera con gravissimi effetti sia sulla salute dei coloni che sui quantitativi di gas serra del Pianeta. La terza area “intoccabile”, che copre la parte centro orientale dell’isola, è habitat d’elezione di alcune specie risalenti all’era geologica del Gondwana, nonché di indigeni isolatissimi. Lo sfruttamento di Papua, in definitiva, rappresenta un vero e proprio sfregio a una fetta del Pianeta che lo stesso Charles Darwin considerava frutto di un “creatore separato”, in virtù della diversità genetica delle sue specie (uomini inclusi, essendo i Papua diretti discendenti della prima e ancestrale migrazione africana).
Nel 2015 West Papua è stata riconosciuta “provincia di conservazione”: un provvedimento governativo che ha iniziato a frenare il consumo di suolo
“I piani di sviluppo del governo indonesiano non riguardano solo le piantagioni o la rete stradale -evidenzia Hans Nicholas Jong, analista della piattaforma ecologica Mongabay-, ma anche la completa elettrificazione dell’isola, garantita oggi solo per il 47%, così come la costruzione di porti marini da inserire in un più ampio programma di autostrade del mare”. Quest’ultimo punto potrebbe rappresentare il colpo mortale per Papua, rimasta sostanzialmente esclusa dai grandi traffici sino agli anni 2000 proprio per la sua posizione geografica defilata. Oltre che per gravi problemi di gestione politica. Dopo aver conquistato l’indipendenza dall’Olanda nel 1962, l’Indonesia si era infatti affrettata a ricondurre tutti gli ex territori coloniali sotto il controllo di Jakarta. Da quel momento è stato osteggiato qualsiasi tentativo di unificazione di West Papua alla Nuova Guinea, dove gli australiani avevano invece avviato un lento processo di riconsegna dei poteri alle tribù locali. “Le popolazioni dell’Ovest non hanno mai voluto piegarsi all’esercito indonesiano”, spiega Furir, antropologo impegnato da anni nel far conoscere l’antichissimo patrimonio di pitture rupestri conservato nei pressi di Fak Fak, sulla costa occidentale dell’isola.
“Non hanno ceduto neppure quando fu lanciata la violenta Operasi Koteka, nel 1971, con l’obiettivo di costringere i “selvaggi” a indossare vestiti e mutande al posto del tradizionale astuccio penico -spiega-. Ma, resisi conto dell’impotenza di archi e frecce contro i fucili dell’esercito, alcuni esponenti delle tribù si sono organizzati nel Free West Papua Movement per denunciare le violazioni di diritti umani, il genocidio di intere popolazioni autoctone e le torture contro gli oppositori del Governo indonesiano. Atti violenti di cui si erano macchiati gli stessi europei e che sono ricordati anche nei resoconti dell’esploratore italiano Luigi Maria D’Albertis. Purtroppo, in questa lotta, continuiamo a essere soli e senza voce”. Lo scorso gennaio è stata consegnata all’Onu una petizione di un milione 800mila firme di papuani occidentali -inclusi membri delle grandi tribù Dani e Asmat-, con la richiesta ufficiale di riconoscimento dell’indipendenza. Ma l’Indonesia resta un colosso economico e demografico da trattare con i guanti. Chi ancora può, come i Korowai, vive nascosto nel profondo nella foresta, scrutando l’orizzonte dalle proprie capanne costruite in cima alle piante, fra canguri volanti, petauri e dingisi. Dovessero mai arrivare estranei, non sarebbe un grosso problema. Il loro cervello, insieme al cuore e al fegato, sono ancora pietanze cui è impossibile rinunciare.
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