Ambiente
L’energia e la fine dell’era fossile
Le grandi utility dell’energia annunciano -in Italia- esuberi tra il personale e la chiusura di impianti di produzione. Una situazione largamente prevedibile, cui non è stata data risposta adeguata. Anzi, si è continuato a costruire nuove centrali a carbone e olio combustibile, nonostante il calo dei consumi e il boom delle rinnovabili
Sembra finita anche l’era del posto di lavoro sicuro all’Enel. Da mesi, infatti, all’interno dell’ex monopolista, oggi multinazionale dell’energia, si parla di esuberi e la cifra sembra vicina al 10% di tutti gli occupati in Italia. L’amministratore delegato, Fulvio Conti, nel presentare il Bilancio 2012, si è trovato costretto ad annunciare ben 6 miliardi di euro di dismissioni da attuare nel corso del 2013 e del 2014 in modo da ridurre il debito, accontentando così le fameliche agenzie di rating.
Ma il problema non riguarda solo Enel: la francese Gdf Suez chiuderà cinque gruppi a ciclo combinato in Olanda ed Ungheria per un totale di 2,1 GW (2.100 MW equivalenti a tre centrali di medie dimensioni), dopo averne già chiusi in passato 5,2 GW; i tedeschi di Eon hanno annunciato la chiusura in Europa di 11 GW non più redditizi e riguardo all’Italia hanno rimandato al 2015 (ma sembra più un addio che un rinvio) la prevista costruzione di un gruppo a carbone da 410 MW nella centrale sarda di Fiumesanto in sostituzione dei due gruppi esistenti a olio combustibile ormai obsoleti e fuori mercato. Eon in Italia segnala 200 esuberi, 120 proprio a Fiumesanto, mentre Edison chiuderà gli impianti di Jesi, Sarmato e Porto Vito. Sorgenia (controllata da Cir al 52,9% e partecipata dall’austrica Verbunde), infine, ha chiuso i 2012 con un rosso di 196,8 milioni di euro. Al momento, però, le misure più drastiche sul fronte occupazionale le ha annunciate A2A/Edipower: fermata con cassa integrazione a rotazione in quattro centrali (Chivasso, Sermide, Turbigo e Cassano), chiusura della sede di Mestre e ben 400 esuberi di personale.
Del resto, i consumi elettrici sono in caduta libera da tempo ed ogni mese è il segno meno a dominare i rapporti di Terna, la società che assicura trasmissione in alta tensione e dispacciamento dell’elettricità. A gennaio i consumi erano calati del 2,4%, a febbraio hanno segnato un -5,1% rispetto a dodici mesi prima (il calo reale è stato dell’8,1%, ma rispetto al 2012 febbraio ha avuto un giorno in meno e una temperatura media inferiore di circa un grado centigrado, pertanto il dato "depurato" è del 5,1%). Inoltre all’interno del paniere di fonti produttive cresce sempre più la quota delle fonti rinnovabili: se il meteo è bello cala l’idrico ma brilla il sole, se piove come in questo primo trimestre 2013, aumenta l’idroeletrico (+43% a febbraio rispetto a un anno prima). Morale della favola: per le centrali che bruciano fonti fossili si riduce sempre più la fetta della torta e sempre più centrali spengono le loro caldaie.
In sé la cosa non è negativa, perché meno fossili bruciati significa meno inquinamento e meno emissioni di CO2, oltre che meno import di gas dall’estero, ricordando che nel 2012 il saldo commerciale italiano è stato positivo per 11,0 miliardi, ma al netto dell’energia importata lo sarebbe stato per ben 74 miliardi.
Il problema è -quindi- che gli amministratori delegati e gli esperti tutti non l’avevano previsto.
Ma questa situazione era imprevedibile solo per chi credeva ciecamente che i consumi sarebbero saliti senza tregua all’infinito e per chi non ha mai dato una chance all’energia eolica e fotovoltaica. "Esperti" e operatori del settore che dal 2002 ad oggi hanno insistito sulla necessità di nuove centrali paventando il rischio black-out. Il risultato è stato un piano di costruzione di cicli combinati a gas (il tipo di centrale meno costoso da costruire e più rapido da mettere in piedi) che non ha eguali al mondo (anche per efficienza a onor del vero), e che oggi fa sì che ci siano in ballo 25 miliardi di investimenti non ancora ammortizzati.
Nel 2002 in Italia erano in esercizio 54.100 MW di centrali termoelettriche, l’anno seguente entrarono in funzione nuovi impianti toccando quota 62.565 MW, ma nell’estate del 2003 a causa dell’indisponibilità di diverse centrali in manutenzione la potenza netta operativa scese a 54.391 MW a fronte di un fabbisogno di 53.105 MW. Il margine di riserva si attestava quindi su un esiguo 2,4%, rispetto ad un livello del 15%, considerato come ottimale per la sicurezza del sistema. In sostanza, sulla carta tutto sembrava a posto ma nella realtà il numero di centrali effettivamente pronte ad entrare in esercizio era ridotto.
Il problema non stava tanto nel loro numero ma nella gestione degli impianti ed infatti già l’anno seguente grazie ad una ottimizzazione della programmazione annuale delle manutenzioni, unitamente ad una migliore idraulicità, la situazione migliorò e il margine di riserva salì ad un dignitoso 12,2%. Ma la lettura politico-imprenditoriale degli eventi fu di altra natura: “Servono nuovi impianti” si ripeté insistentemente ed il blackout del 28 settembre 2003 diede ulteriore impeto all’impresa.
Complessivamente vennero autorizzati, con le procedure previste dalla legge 55/02 (o dal precedente DPCM del 27 dicembre 1988), 45 impianti di produzione con un incremento della potenza complessiva di circa 24.000 MW elettrici.
Poi a cantieri aperti, e nella maggior parte dei casi ormai conclusi, avvenivano due importanti cambiamenti: la domanda elettrica rallentava la sua crescita per trasformarsi in decrescita ed esplodeva la genereazione da fonti rinnovabili.
Il primo effetto della contrazione è stato quello di mandare fuori regime i normali impianti a vapore (olio combustibile e gas) poiché un ciclo combinato ha una efficienza superiore, una maggiore flessibilità di funzionamento e, in cogenerazione, genera 2-3 volte più elettricità degli impianti a vapore. Poi è seguita la crisi stessa dei cicli combinati: nel 2002 potevano lavorare per 6.000 ore l’anno (rispetto alle teoriche 8.760), ma nel 2010 hanno potuto funzionare mediamente solo per 2.700 ore, troppo poche per recuperare i costi. Infatti il 20 luglio 2010, Simone Mori, uno dei top manager di Enel, davanti all’Autorità per l’energia elettrica e il gas (AEEG), dichiarava che “l’attuale livello dei prezzi non consente la piena copertura dei costi di produzione degli impianti a ciclo combinato di nuova realizzazione”.
Si badi bene che parliamo di luglio 2010, quando il sole produceva ancora solo 251 GWh di corrente e non 2 mila come a maggio 2012, pertanto è inutile dare la colpa al fotovoltaico come Assoelettrica ha invece sostenuto: questa crisi è figlia di una mancata pianificazione e dell’errata previsione degli imprenditori rispetto alla crescita dei consumi elettrici.
Secondo la teoria in un sistema elettrico liberalizzato viene meno la pianificazione centralizzata della capacità di produzione e sono i singoli investitori a decidere quando e dove costruire nuovi impianti, considerando il prezzo dell’energia riconosciuto a tutte le unità che producono. Evidentemente gli investitori hanno ignorato i segnali e hanno creduto che costruire cicli combinati dove capitava si sarebbe comunque rivelato un buon affare.
Dal 2010 ad oggi la situazione è semplicemente esplosa e a febbraio, ultimo dato disponibile, le centrali a metano hanno bruciato il 25,7% di gas in meno del febbraio 2011, dati ancora provvisori segnalano che nel 2012 nel termoelettrico abbiamo risparmiato circa 8 miliardi di metri cubi di gas rispetto a quanto consumavamo nel 2008 (si tratta di più di un decimo dei nostri consumi annuali globali).
È da sottolineare che alla crisi del gas non corrisponde alcun calo produttivo delle centrali a carbone poichè il prezzo del carbone è diminuito di un quarto negli ultimi dodici mesi ed è ai minimi da tre anni.
Oggi una ristrutturazione della generazione da fonti fossili è inevitabile: a fine 2012 i gruppi a ciclo combinato in assetto cogenerativo ammontavano a circa 18 GW, di cui una parte consistente formata da impianti CIP6 ammortizzati di cui è già favorita la dismissione e che pertanto potrebbe essere anticipata.
Poi ci sono 9 GW costituiti da vecchie centrali ad olio combustibile che non servono, e potrebbero essere chiuse definitivamente (tutte dopo la realizzazione del fatidico nuovo cavo fra Sicilia e Calabria). Avremmo quindi tagliato ben 20 GW eliminando gli impianti più vecchi e inefficienti.
Ma aldilà di questa indispensabile ristrutturazione le imprese elettriche devono urgentemente ripensare il loro ruolo poiché è finita un’epoca e se non vogliono condannarsi a un lento declino devono mutare pelle.
“La crisi non può essere interpretata nei termini dell’attraversamento, della carovana nel deserto, quanto della metamorfosi: il sistema sta diventando altro” scrive Aldo Bonomi; per i big player dell’energia si tratta di affrontare questa metamorfosi, di mutare business (per usare le loro logore parole), “fungere da fertilizzatori della green economy territoriale”, non da trivellatori, succhiatori di risorse, come scrive Bonomi su Oxygen, la rivista di Enel “nata per promuovere la diffusione del pensiero e del dialogo scientifico”.
La strada è una: nei mercati maturi, come quello italiano, non ci sarà più spazio per nuove centrali fossili, le utility dovranno inventarsi altri prodotti, potrebbero offrire, in partnership con gli istituti di credito, prodotti pensati per incentivare i propri clienti ad investire in efficienza energetica e aiutarli ad attuare progetti di riqualificazione energetica. Smart grid e mobilità elettrica sono due altri possibili settori di sviluppo, di certo quello che è inutile che facciano (come invece fanno da tempo) è elemosinare sussidi per mantenere una situazione insostenibile o tentare di bloccare lo sviluppo delle rinnovabili, come sta facendo il presidente di Assoelettrica, Chicco Testa col suo recente pamphlet contro il solare fotovoltaico.
* Roberto Meregalli, roberto@beati.org, cura il sito www.martinbuber.eu. Il suo ultimo libro è "Energia, un nuovo inizio"