Ambiente / Intervista
Sandro Mazzariol. Gli ultimi istanti delle balene
L’International Whaling Commission monitora gli spiaggiamenti dei cetacei e studia le cause che provocano il fenomeno: tra queste malattie e inquinamento
Era nata nel 1946 “per dare la caccia alle balene”, oggi l’International Whaling Commission (IWC) è diventata “un organismo di conservazione che supporta le attività di monitoraggio degli spiaggiamenti”, spiega Sandro Mazzariol. Il patologo veterinario nato a Portogruaro (VE) nel 1976 è responsabile dell’unità d’intervento italiana del Cetaceans’ stranding Emergency Response Team (Cert) presso l’Università degli studi di Padova e presiede il gruppo di lavoro sugli spiaggiamenti dell’IWC. “Ogni anno, lungo i novemila chilometri di coste italiane, registriamo tra i 180 e i 200 casi”, racconta ad Altreconomia.
A cosa ci riferiamo quando parliamo di spiaggiamenti?
SM È il fenomeno in base al quale cetacei e tartarughe marine arrivano sulle spiagge. In Italia, nella maggior parte dei casi, si tratta di eventi che riguardano singoli animali, ma di solito ne sentiamo parlare quando si tratta di spiaggiamenti “di massa”, più rari nel nostro Paese. Un’altra distinzione va fatta tra animali vivi e morti. Nel 90% dei casi, sulle coste italiane arrivano animali privi di vita. Solo tra i 10 e i 15 cetacei all’anno sono ritrovati sulle spiagge ancora vivi e il loro destino è al centro di un dibattito bioetico: occorre decidere se praticare loro l’eutanasia, liberarli nuovamente in mare (in condizioni molto compromesse) o portarli in una struttura zoologica.
Cosa succede invece ai cetacei che arrivano sulle coste privi di vita?
SM In questi casi è previsto un percorso codificato. Sono otto le specie di cetacei che si spiaggiano più di frequente sulle coste del Mediterraneo. Di queste, quattro -il delfino comune (Delphinus delphis), il tursiope (Tursiops truncatus), la stenella e il grampo (Grampus griseus)- sono considerate di piccole dimensioni e sono esaminate negli istituti zooprofilattici locali. Altre quattro sono di grandi dimensioni: il capodoglio (Physeter macrocephalus), la balenottera comune (Balaenoptera physalus) -l’unica balena presente nel Mediterraneo-, lo zifio (Ziphius cavirostris) e il globicefalo (Globicephala melas), noto per gli spiaggiamenti in massa in Nuova Zelanda. Con questi grossi cetacei interveniamo come Cetaceans’ stranding Emergency Response Team, in collaborazione con gli enti sanitari e di ricerca regionali.
Da quando l’Italia è dotata di uno strumento di monitoraggio degli spiaggiamenti?
SM L’avvio del monitoraggio è iniziato volontariamente nel 1986 e dal 2011 è sostenuto dai ministeri dell’Ambiente e della Salute. Nel 2015 è nata la Rete nazionale spiaggiamenti, che è ancora in fase d’implementazione. È un lavoro complesso, ma obbligatorio per l’Italia, poiché previsto a livello internazionale come strumento di tutela dei cetacei marini. Con il nostro lavoro possiamo monitorare quanti sono questi animali, dove si trovano e quali sono le cause degli spiaggiamenti. E lo facciamo in stretto contatto con gli altri Paesi, rafforzando una collaborazione tra le realtà del mare Mediterraneo, sotto l’egida dell’Accordo per la conservazione dei cetacei del mar Mediterraneo, mar Nero e acque adiacenti (ACCOBAMS, accobams.org) della Commissione baleniera.
Le cause degli spiaggiamenti s’individuano in diversi fattori: sanitari, ambientali e antropici.
SM Il 50% delle volte non siamo in grado di individuare con precisione la causa dello spiaggiamento. Il mare ci restituisce questi animali in cattive condizioni e ogni anno si riescono a portare in laboratorio solo 80 dei circa 200 cetacei spiaggiati: per quasi metà di questi soggetti riusciamo a ipotizzare le cause. Inoltre, dobbiamo sempre tenere presente che stiamo parlando di animali. Abbiamo la tendenza a considerare speciali queste specie “superiori”, invece molti muoiono perché sono vecchi o si ammalano, proprio come noi. Alcune malattie in particolare sono diventate endemiche e hanno un effetto dannoso sul sistema immunitario: è il caso del Morbillivirus, un virus simile al nostro morbillo, che ritroviamo in circa la metà degli animali spiaggiati. Un altro 30% dei cetacei (circa 20 esemplari l’anno) muore per cause antropiche. Tra queste, la più devastante è l’interazione con la pesca e i suoi strumenti, come le reti abbandonate in mare. E ancora, ogni anno un paio di balene muoiono in seguito alla collisione con le navi cargo o i traghetti veloci.
Quanto pesano i fattori ambientali tra le cause degli spiaggiamenti?
SM C’è una pluralità di situazioni possibili. Ad esempio, i capodogli possono sbagliare strada e giunti nell’Adriatico hanno vita breve in questo mare basso, essendo abituati a nuotare a 3mila metri di profondità. In queste acque possono nutrirsi solo dei rifiuti che trovano sul fondo marino. La plastica che abbonda in mare è un altro tema, oggi molto dibattuto. Possono essere dei corpi macroscopici, che ingeriti dai cetacei s’incastrano, impedendo il passaggio del cibo; o anche residui minori. In quel caso, i polimeri diventano veicoli di batteri che causano infezioni. E sempre più cetacei muoiono in seguito a malattie che dalla terra arrivano al mare attraverso eventi climatici estremi. Succede soprattutto nel mar Ligure.
È possibile fare prevenzione?
SM Il nostro è un lavoro di monitoraggio, per capire le cause degli spiaggiamenti e mitigare il fenomeno. Ma si tratta di eventi strettamente legati alle nostre abitudini “terrestri”: le scelte economiche, ambientali e di consumo che prendiamo come singoli e come società. Talvolta il cambiamento avviene grazie alla determinazione delle unità di monitoraggio stesse. I ricercatori dell’Universidad de Las Palmas de Gran Canaria, per esempio, per primi hanno identificato la correlazione tra gli spiaggiamenti di massa dei cetacei e l’uso marino dei sonar militari. Sentendo questi suoni gli animali si spaventano e modificano il loro profilo d’immersione, spiaggiandosi. I nostri colleghi sono passati subito all’azione, facendo una campagna che ha portato all’abolizione dell’uso dei sonar militari in mare. A questo servono i dati che raccogliamo: a pianificare misure per una gestione più virtuosa della vita marina.
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