Esteri / Inchiesta
La guerra disumana
Così le flotte telecomandate dei droni hanno cambiato incursioni e mercato. Il ruolo strategico dell’Italia
Il volo silenzioso di ore, il bersaglio inquadrato. Il missile. Una scena ormai quotidiana nei conflitti “asimmetrici” del mondo, che si tratti di Iraq, Siria, Pakistan, Afghanistan, Somalia. Ma tutto è gestito da un lontano compound nel polveroso deserto del Nevada, nel verde Lincolnshire o vicino alla costa siciliana. I protagonisti sono gli aerei a pilotaggio remoto o ancora meglio “velivoli senza equipaggio”: nell’immaginario collettivo sono i “droni” (detti UAV: Unmanned Aerial Vehicles), anche se la tecnologia, cosiddetta unmanned (senza uomo), si può applicare a mezzi anche terrestri e navali.
“Non credete ai film che vi mostrano un alto grado di accuratezza delle missioni con droni” ha dichiarato in occasione dell’uscita di “Eye in the sky” (in Italia col titolo “Il diritto di uccidere”, 2015, con Hellen Mirren) l’ex tecnico di droni della US Air Force, Cian Westmoreland. Westmoreland ha messo in guardia soprattutto sulla qualità delle immagini a disposizione dei piloti, ma “non è nemmeno realistico pensare che una possibile singola vittima civile faccia nascere un’accesa discussione addirittura ad alti livelli governativi sull’opportunità di colpire o meno”. Gestire un programma di attacchi con droni, che mettono al centro del mirino anche matrimoni o funerali, significa accettare fin dall’inizio una rilevante dose di “danni collaterali” umani.
“L’Italia sta diventando un Paese di primo piano nello scenario droni, soprattutto quelli armati, e per questo le campagne internazionali pongono grande attenzione ai prossimi sviluppi”, spiega Jessica Dorsey, esperta di diritto internazionale e coordinatrice dello European Forum on Armed Drones per conto della ong Olandese PAX (www.paxforpeace.nl). “Tre i motivi principali: il recente via libera all’armamento da parte USA, il triste caso di Giovanni Lo Porto che è coinciso con la prima ammissione statunitense di responsabilità in uccisione di civili occidentali e la presenza in Sicilia della base di Sigonella, vero e proprio hub internazionale dei droni”. Quando fra pochi mesi le procedure di armamento saranno completate, l’Italia sarà il terzo paese NATO con flotta strutturata di droni armati (tralasciando i prototipi costruiti in casa dalla Turchia).
Il quadro politico-strategico per l’uso dei droni armati (la “guerra preventiva” contro il terrorismo in tutto il globo) venne elaborata ai tempi di George W. Bush (nel febbraio 2002 in Afghanistan vi furono i primi tre uomini uccisi da un drone con missile Hellfire). Ma è negli otto anni di Barack Obama che i veicoli armati senza pilota -in grado di condurre compiti definiti come dull, dirty and dangerous, cioè stupidi, sporchi e soprattutto pericolosi- sono diventati una vera e propria arma strategica: la US Air Force, che già nel 2009 addestrava più piloti e operatori di droni che di aerei militari, oggi ha in organico più posti per piloti di Predator e Reaper (i due droni statunitensi più numerosi ed esportati) che di ogni altro tipo di velivolo.
Sotto forte pressione dell’opinione pubblica il Governo degli Stati Uniti ha diffuso a metà 2016 una prima serie di dati ufficiali sugli attacchi in Afghanistan, Iraq e Siria condotti principalmente con mezzi UAV. Un totale di 473 strikes con uccisioni di combattenti tra le 2.372 e 2.581 unità, e “vittime collaterali” tra i 64 e i 116 civili. Stime considerate troppo basse da analisi di organismi indipendenti: all’altro estremo troviamo infatti quelle dell’inglese Bureau of Investigative Journalism, per cui il totale delle vittime in Afghanistan, Pakistan, Yemen e Somalia varia, a dicembre 2016, tra le 5.653 e le 8.310 unità. Le analisi però convergono sulla percentuale di vittime civili: tra il 10% e il 13%, cioè due o tre volte di più di quanto ammesso dall’amministrazione USA. Le difficoltà di verifica sul campo potrebbero essere usate per abbassare i “danni collaterali” da dichiarare: secondo documenti militari riservati pubblicati a fine 2015 da The Intercept_ tra gennaio 2012 e febbraio 2013 su 200 persone uccise dagli Stati Uniti in Afghanistan solo 35 sarebbero stati obiettivi dichiarati. E addirittura in un periodo ristretto di cinque mesi il 90% delle vittime sarebbe stato ucciso solo in virtù della propria vicinanza a chi era stato messo nel mirino.
Si tratta dei cosiddetti signature strikes, una procedura che prevede di considerare “obiettivo” un individuo non già sulla base di informazioni personali o di localizzazione certa, ma di uno schema generale di abitudini ricostruito tramite dati statistici incrociati. In base ai luoghi frequentati, ai contatti (anche casuali o sporadici) con cellule terroristiche, agli spostamenti giornalieri, magari al possesso di uno specifico telefono cellulare gli Stati Uniti, pur in qualche caso non conoscendo il nome, si sentono in diritto di colpire una persona. Un’azione al di fuori di qualsiasi concetto di “legittima difesa” nelle leggi internazionali: “Se i signature strikes sono già problematici in un conflitto armato, divengono assolutamente inaccettabili al di fuori di esso perché di fatto configurano una sentenza capitale emessa senza processo”, sottolinea Chantal Meloni, professore associato di Diritto penale all’Università di Milano.
Il mappamondo dei droni
Gli attacchi con droni non sono monopolio statunitense. “Il primo attacco con un Reaper britannico in Afghanistan è del maggio 2008”, racconta ad Altreconomia Chris Cole, ricercatore della ong “Drone Wars UK” di Oxford. “La serie si è conclusa nel novembre 2014 dopo oltre 5.200 missioni in cui sono stati lanciati 510 missili in 378 diverse occasioni”. Il teatro delle operazioni si è poi spostato nel Medio Oriente: “Da agosto 2014 a fine 2016 i droni della RAF hanno effettuato quasi 1.700 missioni su Iraq e Siria durante l’Operazione Shader lanciando 670 ordigni”, continua Cole. Le missioni con droni sono state circa la metà del totale dell’Operazione (condotta anche con Tornado e Typhoon). “Si tratta di numeri molto alti, anche se per quantità di missili sparati da droni ci fermiamo al 25% del totale, e ciò si traduce in un pesantissimo carico di lavoro per piloti e operatori. Me lo ha recentemente confermato in un’intervista, pubblicata sotto condizione di anonimato, un ex pilota della RAF che ha parlato di compiti operativi incessanti, costanti e senza fine”.
Nel primo decennio del nuovo millennio solo USA e Regno Unito possedevano sistemi del genere nel proprio arsenale: ad oggi invece sono quasi una cinquantina i Paesi dotati di veicoli senza pilota (se consideriamo sia l’uso armato sia di riconoscimento e sorveglianza). Tra essi anche Australia, Germania, Russia, Turchia, Cina, India, Iran, Francia, Iraq, Svezia ma il cerchio si restringe fortemente se andiamo a considerare solo gli UCAV (cioè le versioni da combattimento) al momento a disposizione, anche solo come prototipo, di non più di venti Paesi, che si contavano invece sulle dita di una mano anche solo due anni fa. Ad averli già usati in combattimento sono da una parte i già citati Stati Uniti e Regno Unito, gli unici Stati a farlo con sistematicità e soprattutto proiezione offensiva, e dall’altra Turchia, Nigeria, Iraq, Pakistan (tutti con azioni interne) e forse Iran con alcuni attacchi in Siria.
E l’Italia?
L’utilizzo -senza capacità di attacco- dei droni italiani si è concentrato in missioni di tipo ISTAR (Intelligence, Surveillance, Target Acquisition and Reconnaissance) in contesti vicini come il controllo del territorio nazionale e del Mediterraneo centrale e la compartecipazione alle operazioni militari in Libia, ma anche in funzione di proiezione legata a missioni militari all’estero (Iraq, Afghanistan, Gibuti e Somalia, Kosovo, Siria e Iraq). Attualmente l’Aeronautica italiana ha in dotazione sei MQ-1C Predator A+ (costo 4 milioni di dollari) e altri sei MQ-9 Reaper (inizialmente denominato Predator B, costo di circa 18 milioni di dollari) della General Atomics e tutti inquadrati nel 32esimo stormo di stanza ad Amendola (provincia di Foggia).
Solo il Reaper, che l’Italia ha acquisito nel 2009, può essere armato, ma non nella sua configurazione base. L’upgrade può essere concesso solo dal Congresso degli Stati Uniti: il nostro Paese l’ha richiesto, forte anche dei contatti statunitensi dell’allora ministro della Difesa, l’Ammiraglio Giampaolo Di Paola, fin dal 2012, e l’ha ottenuto solo nel novembre 2015 -al contrario della Turchia, le cui richieste sono sempre state rigettate-.
L’impiego italiano di droni è destinato a crescere nell’immediato futuro: tuttavia meno del 40% dei cittadini è informato sull’esistenza di questi mezzi
Sono stati acquistati, per un controvalore di 130 milioni di dollari, 156 missili AGM-114 Hellfire prodotti da Lockheed Martin, 20 bombe a guida laser Paveway 20 GBU-12 e 30 sistemi JDAM (in grado cioè di trasformare bombe a caduta libera in ordigni guidati) GBU-38. Ciascun Reaper ha capacità di carico utile di quasi 1.400 chili, con possibilità di trasportare contemporaneamente quattro missili Hellfire e due bombe Paveway. Per addestramento e l’integrazione software, attualmente ancora in corso, si stimano costi per ulteriori 30 milioni di dollari. Il completamento della fase di armamento, non semplice anche dal punto di vista tecnico, è previsto per il 2018 ed è stato confermato pubblicamente anche dall’ex-capo di Stato Maggiore della Difesa Vincenzo Camporini (generale dell’Aeronautica). Le manovre per gestire questo rilevante cambiamento sono già iniziate con un rischieramento operativo sulla base di Sigonella, per potenziare le capacità di sorveglianza della costa meridionale italiana e del Mediterraneo.
La NAV di Sigonella può essere davvero definita come “l’hub dei droni del Mediterraneo” anche per altri motivi: dal 2008 gli Stati Uniti vi distaccano alcuni Global Hawk di sorveglianza, e diverrà sede dell’Alliance Ground Surveillance, sofisticato programma NATO di sorveglianza aerea. Il sistema AGS sarà in grado di osservare ciò che avviene in tutto il mondo e di ottenere la “consapevolezza situazionale” prima, durante e dopo le operazioni NATO. Tra il 2018 e il 2019 Sigonella diventerà una delle principali basi operative del programma americano “Broad Area Maritime Surveillance” basato su droni da sorveglianza a lungo raggio in aree costiere e oceaniche. Non a caso, quindi, Sigonella ospiterà anche l’UAS SATCOM, infrastruttura di telecomunicazioni satellitari essenziale per il funzionamento globale dei droni, pensata come gemella e backup di quella di Ramstein in Germania, rendendo quindi la base sul territorio italiano non solo un riparo per i droni ma un vero e proprio cervello del sistema. Anche attraverso l’antenna MUOS di Niscemi, a soli 60 chilometri, verranno rilanciate in tutto il mondo comunicazioni satellitari senza le quali gli attacchi armati con i velivoli senza pilota non possono essere condotti.
Il mercato dei droni
Il mercato UAV è dominato oggi da tre Paesi: Stati Uniti d’America, Israele e Cina. La divisione Aeronautical Systems della statunitense General Atomics domina con Predator e Reaper la produzione per il Pentagono, con commesse da 2 miliardi di dollari che fungono da volano per le vendite estere. La Israel Aerospace Industries è invece stata tra le prime aziende a sviluppare la tecnologia UAV, già dagli anni 80. È grazie al suo fatturato di circa 3,75 miliardi di dollari derivante per oltre il 75% da contratti esteri che Israele è diventato il maggiore esportatore mondiale, con una fetta del 40% secondo dati dell’istituto indipendente SIPRI. La China Aerospace Science and Technology Corporation con i suoi modelli Caihong (“arcobaleno”) sta invece iniziando a riempire il vuoto lasciato dagli USA (restii ad esportare verso alcuni Paesi) con produzioni peraltro meno costose. Difficile stabilire il fatturato specifico sui droni di una azienda che è comunque inserita nella lista “Fortune-500”.
In generale il bilancio fiscale USA per il 2016 includeva 2,9 miliardi di dollari per la ricerca, lo sviluppo e l’acquisto di droni. Ciò include anche il costo di volo -dai 2.500/3.500 dollari all’ora per Predator e Reaper fino ai 30mila dollari all’ora per un più grande Global Hawk (lungo 14 metri, apertura alare di 40 metri e autonomia di volo di 36 ore; costo complessivo oltre 130 milioni di dollari)-.
Attualmente l’unica possibilità di sviluppare una numerosa flotta di droni di classe e dimensioni rilevanti è però quella di affidarsi agli Stati Uniti che possiedono una sorta di monopolio (con veto, sulla parte missilistica) per i sistemi più sofisticati. Per rompere questo monopolio si è mossa la stessa Unione europea che ha iniziato a finanziare ricerche in questo settore dal 2001 sfruttando la valenza “duale” dei droni. I passi più robusti derivano però da collaborazioni fra singoli Paesi: da una prima collaborazione italo-francese di circa dieci anni fa si è arrivati ad una fase avanzata di test per il velivolo da combattimento nEUROn, che ora è sviluppato in compartecipazione anche con Svezia, Spagna, Grecia e Svizzera con un budget complessivo di 405 milioni di euro (costo previsto per singola unità: 25 milioni di euro). Mentre i colossi Airbus, Dassault e Leonardo-Finmeccanica sono dietro all’iniziativa voluta nel 2015 da Italia, Francia e Germania per lo sviluppo di un progetto europeo, sostenuto dalla European Defense Agency, che ha l’obiettivo di ottenere entro una decina di anni (al costo complessivo di un miliardo di euro) un sistema in grado di portare a termine missioni di lungo raggio ad altitudini di volo medie.
Droni armati. Quali regole?
“Dal punto di vista legale, in un quadro che dovrebbe prevenire qualsiasi aspetto strategico, occorrerebbe normare l’utilizzo dei droni armati solo come legittima difesa intesa in senso conforme all’art. 51 della Carta di San Francisco, evitando le pericolose derive che abbiamo constatato per gli Stati Uniti e il Regno Unito”, riflette Chantal Meloni, che oltre ad insegnare all’Università di Milano collabora con lo European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR) di Berlino. “Per riuscirci, i passaggi fondamentali sono tre: permetterne il dispiegamento solo nell’ambito di conflitti armati, rendere pubbliche le regole di ingaggio, stabilire una catena di comando che renda facilmente rintracciabili i responsabili di violazioni conseguenti a un uso non conforme dei sistemi”. Recentemente ECCHR ha presentato istanze di accesso a informazioni sui droni statunitensi stanziati a Sigonella tramite la legge sulla trasparenza della pubblica amministrazione, ricevendo però solo silenzi o dinieghi. Per questo motivo a luglio 2017 è stato presentato un ricorso al giudice amministrativo (Tar del Lazio) per ottenere l’accesso agli atti. Nonostante l’ormai prossimo completamento delle procedure di armamento, il Parlamento non ha ancora affrontato la questione: il rischio è quello di arrivare in ritardo all’appuntamento lasciando il campo a regole di ingaggio improvvisate e soprattutto opache.
Si è invece mosso per tempo il Parlamento europeo che già nel 2014 aveva votato una risoluzione (reiterata nel 2016) con la richiesta di una posizione comune dell’Ue sull’uso di droni armati. “Con il loro utilizzo i veicoli militari senza pilota abbassano le soglie decisionali sull’uso della forza, e il loro dispiegamento in battaglia mette in crisi aree consolidate del diritto internazionale”, spiega Jessica Dorsey, coordinatrice dell’EFAD e ricercatrice all’International Centre for Counter-Terrorism, cui la sottocommisione del Parlamento europeo per i Diritti dell’uomo ha chiesto un’analisi preliminare, presentata a Bruxelles nel giugno 2017.
“Anche senza considerare i tentativi di accesso a questa tecnologia militare da parte di gruppi terroristici e attori non-statuali, il problema si pone anche per gli Stati Nazionali: la frammentazione delle interpretazioni legali su cosa sia lecito nell’uso dei droni armati potrebbe indebolire in maniera pericolosa e irreparabile il corpus normativo internazionale costruito faticosamente in decenni di sforzi”. La ricetta proposta è quella di una “Posizione Comune” che preveda regole nazionali certe e pubbliche con un controllo indipendente ed esterno sul loro utilizzo, accompagnato da specifici meccanismi di trasparenza e responsabilità; senza dimenticare l’impossibilità anche solo di coadiuvare un altro Stato in eventuali attacchi illegali con droni e collegando anche questo ambito alle regole (nazionali ed internazionali) di export militare già presenti. “Mantenendo interpretazioni lasche e non chiare del quadro giuridico -conclude Jessica Dorsey- l’Europa rischia di contribuire fortemente a destabilizzare la sicurezza internazionale, come già avvenuto da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna”.
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