Ambiente / Approfondimento
L’industria della moda non ha intenzione di abbandonare le fibre sintetiche inquinanti
Dalla fast fashion ai marchi sportivi e di lusso: i primi cinquanta brand esaminati da Changing market foundation hanno raddoppiato l’utilizzo di tessuti sintetici negli ultimi tre anni, sfruttandone i costi bassi e non facendosi carico degli impatti ambientali pesantissimi. E non puntano solo ad aumentarne l’utilizzo entro il 2030 ma spesso nascondono la reale portata della propria dipendenza. Ecco perché
Negli ultimi tre anni i grandi marchi della moda internazionale e della fast fashion hanno raddoppiato l’utilizzo di tessuti sintetici, uno dei principali fattori di inquinamento da microplastiche. E allo stesso tempo hanno sviluppato tattiche di greenwashing e di distrazione per continuare indisturbati il proprio business.
Sono i risultati dell’analisi di Changing market foundation effettuata sulle prime cinquanta aziende del settore tessile e della moda, che rappresentano un totale di mille miliardi di dollari in capitalizzazione, volta a esaminare il loro utilizzo di tessuti sintetici e le politiche messe in atto per ridurre l’inquinamento da microplastiche.
“I risultati rivelano che, nonostante le crescenti prove che evidenziano i rischi per l’ambiente e la salute, i marchi di moda fanno sempre più affidamento sulle fibre sintetiche, e la maggior parte di essi ne ha aumentato l’uso o nascosto la reale portata della propria dipendenza -riporta Changing market-. Stanno impiegando tattiche simili a quelle utilizzate dall’industria dei combustibili fossili, negando la gravità dell’inquinamento da plastica, distraendo il pubblico e le autorità di regolamentazione con false soluzioni e bloccando attivamente gli sforzi significativi per affrontarlo”.
Il tema dell’inquinamento da microfibre (frammenti di materiale di dimensione inferiore ai cinque millimetri) e da microplastiche è da tempo al centro del dibattito. Ed è sempre più evidente che l’industria dell’abbigliamento ne è una fonte significativa, ma spesso trascurata. Secondo alcuni studi più di 14 milioni di tonnellate di microplastiche si sono accumulate sul fondo degli oceani e ogni anno entrano nei mari dalle 200mila a 500mila tonnellate di fibre di microplastiche.
Una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Nature stima che l’industria dell’abbigliamento, soprattutto a causa della sua dipendenza da indumenti sintetici, abbia generato 8,3 milioni di tonnellate di inquinamento da plastica nel 2019, pari al 14% delle 60 milioni di tonnellate che si stima siano state prodotte da tutti i settori. Questa forma di inquinamento sempre più diffusa sta destando preoccupazioni per i suoi possibili effetti negativi sulla salute umana. Le microplastiche sono in grado di entrare nell’organismo e il loro accumulo è stato correlato all’insorgenza di diverse malattie respiratorie e cardiovascolari.
Ad oggi le fibre sintetiche rappresentano il 68% di tutta la produzione ed è previsto che raggiungano il 73% entro il 2030. Un successo dovuto principalmente al loro basso costo; a settembre 2023 il poliestere, la principale fibra sintetica, aveva un prezzo pari alla metà del cotone. Questa dipendenza ha gravi conseguenze sull’ambiente non solo in quanto contribuisce in modo significativo all’inquinamento da rifiuti e da plastica, ma anche perchè contribuisce a mantenere la dipendenza dell’industria dai combustibili fossili.
Un report di Changing market foundation di dicembre 2023 aveva già evidenziato l’utilizzo di petrolio russo da parte delle grandi aziende della fast fashion con un impatto sull’ambiente non indifferente, nel 2002 la produzione globale di poliestere era pari a 47 milioni di tonnellate per un totale di 125 milioni di anidride carbonica prodotta.
Ad aprile di quest’anno Changing market foundation insieme a Clean clothes campaign, Fashion revolution, No plastic in my sea and the Plastic soup foundation ha scritto una lettera alle maggiori cinquanta aziende della moda per chiedere informazioni sull’utilizzo di materiali sintetici. Le risposte ottenute sono chiare.
Rispetto alla ricerca effettuata tre anni prima la situazione è peggiorata. A iniziare dal segreto aziendale: più della metà delle aziende (54%, 27 marchi) non ha risposto in tutto o in parte al sondaggio, rispetto al 44% del 2022 e al 17% del 2021. Anche le valutazioni delle aziende, classificate in una scala di quattro livelli, sono risultate ampiamente inadeguate. Quasi tutti i marchi interpellati (45 su 50) sono stati giudicati “insufficienti” e rientrano nelle due categorie inferiori. In particolare sono 29 le aziende inserite nella categoria peggiore, caratterizzata da una trasparenza nulla. Tra queste rientrano un mix di fast fashion, marchi sportivi e di lusso, catene di negozi al dettaglio e aziende che hanno fatto della sostenibilità un loro vanto, tra cui Patagonia, Adidas, Boohoo, Burberry, Lvmh, Shein e Walmart.
Al primo posto per utilizzo di tessuti sintetici c’è Shein, il principale marchio della fast fashion cinese, che li impegna per oltre l’80% della produzione. Boohoo, marchio di fast fashion inglese, è stato il secondo utilizzatore più alto con il 69% delle fibre totali utilizzate (rispetto al 64% nel 2022), seguito da Lululemon con il 67% (rispetto al 62% del 2022), Aldi con il 60% e New Look con il 56% (rispetto al 60% del 2021).
Se invece si considera il volume di materiali utilizzati, l’azienda leader è Inditex (Zara) per un totale di 212.886 tonnellate, un aumento significativo rispetto alle 178.030 tonnellate dichiarate nel 2022. “Tuttavia, Shein non ha rivelato il suo volume totale; dato che nel 2022 ha superato H&M e Inditex conquistando un quinto del mercato globale della fast fashion, è altamente probabile che sia anche il più grande utilizzatore di materiali sintetici per volume. Anche Nike non ha fornito il suo volume totale di materiali sintetici, ma ha rivelato un volume sostanziale di poliestere”, precisa Changing market.
In generale l’utilizzo di materiali sintetici è aumentato, metà delle aziende che hanno risposto al sondaggio (11 su 23) hanno segnato un incremento. Dato che, come detto prima, si prevede che le fibre sintetiche arriveranno a rappresentare il 73% della produzione tessile entro il 2030, Changing market conclude che è probabile che la maggior parte delle 27 aziende che non hanno fornito informazioni abbiano comunque aumentato il loro utilizzo di fibre sintetiche.
Una chiara contraddizione con gli impegni in tema di ambiente e sostenibilità presi da molte di queste aziende. Nello specifico, sono quattro i marchi che avevano promesso di ridurre l’uso di sintetici nel 2022 e che invece hanno aumentato la quota o il volume di queste fibre negli ultimi due anni. A partire dalla stessa Inditex che ha incrementato il volume del sintetico del 20% e del solo poliestere del 33%. Le altre sono C&A (+4% sintetici nel mix generale), Esprit (+15% di sintetico e +33% poliestere) e Reformation (+61% sintetico).
Eppure i rischi ambientali e per la salute sono noti: 15 delle 17 aziende che hanno risposto alla sezione sulle microplastiche del questionario di Changing market ne riconoscono la pericolosità per l’ambiente. Nonostante questa consapevolezza il settore utilizza tattiche di comunicazione per portare avanti due strategie distinte: ritardare e distrarre.
La prima punta a ritardare azioni per la sostenibilità del settore con la scusa che sarebbero necessarie “ulteriori ricerche” o aderendo a iniziative di sostenibilità create dalla stessa industria come The microfibre consortium (Tmc) o Fashion for good. Più volte accusate di essere inefficaci, a partire da Tmc che riunisce 21 dei cinquanta marchi esaminati. L’iniziativa minimizza i rischi delle microplastiche, considerandole non più dannose delle fibre naturali, il che consente ai brand firmatari di non cambiare le proprie pratiche industriali apparendo allo stesso tempo come attori consapevoli e impegnati per la sostenibilità del settore.
La seconda strategia consiste nel distrarre l’attenzione dalla responsabilità aziendale e riguarda vere e proprie pratiche di greenwashing come l’utilizzo di plastica riciclata. Un’iniziativa presentata dalle aziende come un’alternativa sostenibile alla plastica vergine. Tuttavia, Textiles exchange, un organismo industriale che rappresenta oltre 800 marchi, insieme all’industria delle bevande hanno criticato questo approccio definendolo inefficace e fuorviante.
Il poliestere riciclato risulta infatti prodotto quasi esclusivamente da bottiglie di plastica, interrompendo così il loro ciclo di riciclaggio. “Gli indumenti prodotti con queste bottiglie non possono essere riciclati efficacemente in materiali della stessa qualità a causa dei limiti delle tecnologie di riciclaggio e hanno quindi maggiori probabilità di finire in discarica o di essere inceneriti. Questa strategia -conclude Changing market- non affronta in alcun modo il problema dell’inquinamento da microplastiche e dei rifiuti”.
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