Economia / Inchiesta
Il “gigantismo” che ha messo in crisi il commercio navale
Il 90 per cento delle merci viaggia per mare. La crescita contenuta dell’import-export globale nel 2016, +1,7%, mette in difficoltà gli armatori, che negli ultimi anni, indebitandosi con le banche, avevano aumentato dell’8-10% l’offerta di stiva
La maggior parte degli oggetti che possedete arrivano da Thailandia, Sud Corea, Cina, Marocco, Turchia, Sud o Nord America. Che si tratti del vestito appena comprato, del cellulare di ultima generazione, o dei mobili con cui avete rimodernato la cucina, le cose che possedete vi sono arrivate dopo un viaggio in una nave portacontainer. L’International Chamber of shipping (www.ics.org.uk) sostiene infatti che il 90% delle merci nel mondo viaggi via mare. Secondo il World Shipping Council (www.worldshipping.org), un’associazione composta da 26 compagnie navali, il commercio marittimo muove ogni anno una quantità di prodotti del valore di 4mila miliardi di dollari. E l’industria dello shipping vale intorno ai 183,3 miliardi di dollari, dando occupazione diretta a 4,2 milioni di persone. Se si considera anche l’indotto, arriviamo a ricavi per 436,6 miliardi di dollari e a 13,5 milioni di posti di lavoro. Questo giro d’affari è prodotto da una flotta mercantile attiva di 6.070 navi con una capacità di stiva di 20.753.393 teu (twenty-foot equivalent unit, la misura standard di volume nel trasporto dei container pari a circa 40 metri cubi), secondo la classifica stilata dalla società di monitoraggio Alphaliner (alphaliner.com/top100).
In Italia, invece, l’economia del mare vale, secondo il V rapporto di Unioncamere, il 3,1% del Pil, 42,6 miliardi di euro e dà lavoro a 835mila persone, circa il 3,5% degli occupati a livello nazionale. In questo quadro il settore di movimentazione merci e persone incide per il 6% dei profitti, generando un giro d’affari di 7,7 miliardi di euro e occupa circa 99mila persone.
In Italia l’economia del mare vale il 3,1% del Pil, 42,6 miliardi di euro e dà lavoro a 835mila persone, circa il 3,5% degli occupati (V rapporto di Unioncamere, 2016)
La prima compagnia italiana presente nella classifica globale è la napoletana Grimaldi, al 33esimo posto. Il gruppo ha chiuso il 2015 con un fatturato di 30 milioni di di euro e con 16 milioni di utile. Anche la seconda potenza mondiale nello shipping, la Mediterranean Shipping Company (Msc), è stata fondata nel 1970 a Napoli, ma ha poi spostato il suo quartier generale a Ginevra. Oggi l’Italia è solo un piccolo tassello in un monopoli mondiale che soffre di gigantismo: un centinaio di imprese nel mondo gestiscono il settore dello shipping. “Le prime 5 compagnie di navigazione offrono il 50% della capacità di stiva esistente e i primi cinque terminalisti (imprenditore pubblico o privato che gestisce un’area portuale per far attraccare le navi e movimentare la merce, ndr) nel mondo rappresentano anch’essi il 50% della capacità di caricazione/scaricazione dei teu a livello mondiale” racconta il professor Renato Midoro, docente di Economia e gestione delle imprese di trasporto all’Università di Genova. Questi oligopolisti del mare sono Maersk Line, MSC, CMA-CGM, Hapag Lloyd ed Evergreen (per quanto riguarda le compagnie di navigazione) e Hutchinson, APM Terminals, PSA, Cosco e DP World (tra i terminalisti).
Tra le due categorie non mancano ulteriori intrecci: il gruppo armatoriale danese A.P. Møller-Mærsk, ad esempio, possiede sia la Maersk Line (prima società per movimentazione teu) che l’APM Terminals (tra i top player del settore terminalisti). Il gruppo è un vero colosso nel mondo del trasporto marittimo: impiega quasi 90mila persone in 130 Paesi e controlla il 15,3% (fonte Alphaliner) della capacità di stiva nel mondo. Nei primi 6 mesi del 2016 il gruppo ha registrato ricavi per 8,8 miliardi di dollari (in calo del 16% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno). A pesare sul bilancio di metà anno sono state in particolare le prestazioni della Maersk Line: la compagnia di navigazione ha registrato nel semestre 2016 perdite per 151 milioni di dollari e ricavi per 5 miliardi (in calo del 19% rispetto ai risultati ottenuti nei primi 6 mesi del 2015).
La crisi del settore è innegabile. Il caso che ha sollevato la polvere da sotto il tappeto è stato lo schianto della sudcoreana Hanjin shipping, settima potenza mondiale nel settore. La compagnia possedeva 11 terminal e 2 centri logistici, movimentava ogni anno 10 milioni di teu. Questo gigante è crollato sotto il peso di 6,1mila miliardi di won (circa 5,5 miliardi di dollari) di debiti, arrivando a perdere 100 dollari su ogni container trasportato nel 2016.
Ma si tratta solo della punta di un iceberg. Ad agosto i ricercatori di Drewry, agenzia di consulenza per le industrie del trasporto marittimo (www.drewry.co.uk), hanno analizzato le trimestrali delle principali compagnie del settore dello shipping e hanno stimato che la perdita del comparto dall’inizio dell’anno è stata di 5 miliardi di dollari, e che se non ci saranno cambiamenti quest’anno le perdite potrebbero raggiungere i 30 miliardi. Sempre ad agosto, la World Trade Organization ha rivisto in forte ribasso le stime sulla crescita del commercio globale di quest’anno, portandole dal +2,8% di aprile a +1,7%, il livello più basso dai tempi della crisi finanziaria del 2008.
La crisi del settore shipping rischia anche di intaccare il comparto bancario, già in difficoltà, e quello tedesco in particolare. Dal rapporto Petrofin Global Bank Research, della società di ricerca ellenica del gruppo Petrofin Ship Management Inc, condotto sulle prime 40 banche al mondo, è risultato che, a dicembre 2015, l’esposizione di questi istituti nei confronti del comparto navale era di 397,84 miliardi di dollari. Nella classifica spiccano i 91 miliardi di dollari di prestiti concessi al settore proprio dalle principali banche tedesche: Commerbank, Deutsche Bank, NordLB, Nordbank, DVB Bank e KFW.
L’unica italiana presente nella lista è Unicredit, con quasi 6 miliardi di dollari. L’esposizione finanziaria complessiva dello shipping italiano però, secondo i dati della Confederazione italiana degli armatori, dovrebbe essere di più di 10 miliardi di dollari. Vista la crisi del settore, anche la Banca centrale europea ha deciso, a partire da giugno, di monitorare le banche dell’area euro che hanno concesso prestiti alle compagnie. Rispetto al 2010, però, gli istituti si sono già sbarazzati di buona parte di questi crediti: la ricerca di Petrofin infatti mostra come, ad esempio nel caso della Germania, i prestiti degli istituti tedeschi siano scesi da quota 151 miliardi di dollari agli attuali 91. Questa riduzione è legata alla corsa all’acquisto di questi crediti da parte di hedge fund, iniziata già nel 2013.
Secondo Midoro, però, la bancarotta della Hanjin va letta anche in un altro modo: “È stata una boccata d’ossigeno per le altre top player del settore che se ne spartiscono la carcassa. Se negli anni la domanda di trasporto è cresciuta del 4% annuo, è vero anche che la flotta mercantile ha aumentato la sua offerta di stiva dell’8-10%. Il fallimento della Hanjin ha ridotto la flotta attiva e ha eliminato di un 3% l’eccesso di stiva stimato. Credo si vada verso un’ulteriore concentrazione del mercato”.
Come se i ranghi non fossero già stretti, anche grazie ai Vassel Sharing Agreement, accordi stipulati nel 2015 tra i principali armatori. Si tratta di patti commerciali volti a razionalizzare l’offerta per far viaggiare le navi a pieno carico e garantire dei maggiori profitti agli operatori. Le principali alleanze sono: la 2M, formata da Maersk Line e MSC (con una capacità di 5,5 milioni di teu); la 2CU o Ocean Three (O3), composta da CMA-CGM, Cosco (che si è fusa con la connazionale China Shipping Container Lines), UASC (totale slot 2,8 milioni); la KYHE costituita da Evergreen, la defunta Hanjin, Yang Ming, K-Line (3,2 milioni); e la G6 a cui partecipano Hapag-Lloyd, NYK, OOCL, APL, MOL, Hyundai M.M. (3,5 milioni teu). Il professor Midoro e Francesco Parola, professore di Economia e gestione delle imprese di trasporto all’Università di Genova, hanno dedicato a questo aspetto parte del loro testo “Le strategie delle imprese nello shipping di linea e nella portualità” (Franco Angeli editore). Queste alleanze, con una capacità di ben 15 milioni di teu, offrono l’82% della capacità della flotta mondiale. Ancora nel 2006 la nave più grande del mondo era la Emma Maersk, capacità 11mila teu, mentre oggi ci aggiriamo sui 18 mila teu. “La corsa al gigantismo è un elemento che ha aggravato la crisi”, spiega Midoro. Le nuove navi saranno lunghe 430 metri e larghe 62, avranno un pescaggio di 17. Per avere un metro di paragone l’Empire State Bulding di New York è alto 437 metri, immaginatelo disteso sulla 5Fth Avenue.
Il motto sembrava essere più grande, più bello. Anche i lavori infrastrutturali sono diventate delle opere faraoniche. Come nel caso dei lavori per il raddoppio dei canali di Panama e di Suez. A Panama, i lavori iniziati nel 2009 e conclusisi a luglio 2016, per consentire il passaggio alle navi da 12.600 teu, lunghe 366 metri, larghe 49 e con un pescaggio di 15. Lo scorso anno sono stati completati anche i lavori di ampliamento dei canali egiziani che uniscono il Mar Rosso al Mediterraneo. Il nuovo tratto è lungo 35 chilometri ed è parallelo a quello esistente. Il progetto inoltre ha ampliato e reso più profondo il canale già esistente lungo 37 chilometri. Il costo dell’opera è stato di 8,2 miliardi di dollari e nelle intenzioni del governo egiziano l’operazione raddoppierà le entrate provenienti dal Canale di Suez, passando dagli attuali 5 miliardi ai 10-12 miliardi di dollari l’anno. Adesso però le carte sono state di nuovo mischiate. “Dopo il fallimento di agosto quasi il 70% degli ordini per la costruzione di navi da 22mila teu sono stati bloccati, altri sono stati ritardati a 5 anni. Gli armatori hanno capito che al momento non era sostenibile questa strategia” dice Ennio Forte, docente di Economia applicata presso la Facoltà di Economia dell’Università di Napoli “Federico II”. “Molti operatori dopo la Hanjin si stanno interrogando sulle strategie da perseguire -riassume Alessandro Pitto, presidente di Spediporto di Genova (un’associazione di categoria cui aderiscono il 20% delle imprese italiane)-. I clienti opteranno probabilmente per una diversificazione dei carichi tra i vari operatori”.
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