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Ambiente / Intervista

La dipendenza dai pesticidi avvelena ambiente e salute umana

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Sono passati cinquant’anni dalla messa al bando del Ddt ma l’uso di sostanze chimiche in agricoltura ha continuato ad aumentare. La storica della medicina Elena Conis analizza le cause di questa situazione e il ruolo dell’industria

Tratto da Altreconomia 251 — Settembre 2022

Triana è una piccola città nel Nord -Est dell’Alabama (Stati Uniti) dove negli anni Settanta vivevano meno di mille persone, la quasi totalità afroamericani. Per molti anni, a causa della presenza di un impianto per la produzione del Ddt, i suoi abitanti sono stati esposti a livelli di inquinamento estremamente elevati: il pesticida aveva contaminato il fiume che lambisce la città e, di conseguenza, anche i pesci mangiati dai poverissimi abitanti. Una situazione nota alle autorità ma che il sindaco Clyde Foster scoprì e denunciò solo alla fine degli anni Settanta: nessuno aveva mai avvertito la comunità. “Riuscì a ottenere in poco tempo sia l’attenzione delle agenzie federali sia quella dei media: la comunità ha ricevuto un indennizzo di 24 milioni di dollari e il governo ha finanziato la bonifica”, racconta Elena Conis, scrittrice e storica della medicina, ricercatrice presso l’Università di Berkeley in California che ha raccontato la storia di Triana nel libro “How to sell a poison. The rise, fall and toxic return of Ddt” (“Come vendere un veleno. L’ascesa, la caduta e il ritorno tossico del Ddt”, Bold Type Books).

A prima vista quella di Triana è stata una vittoria, purtroppo però la realtà è più complessa. “I suoi abitanti avevano concentrazioni di Ddt nel sangue tra le più alte mai documentate ma la loro salute non è mai stata studiata come avrebbero voluto -spiega Conis ad Altreconomia-. Inoltre, nonostante la bonifica, i livelli di Ddt nell’ambiente potrebbero non essere ancora abbastanza bassi da proteggere la salute umana. Quello di Triana è un caso di razzismo ambientale, ma è soprattutto la prova che anche quando investiamo tutte le risorse disponibili, episodi di inquinamento come questo sono quasi impossibili da risolvere completamente”. Dagli anni Cinquanta del Novecento il Ddt era stato usato in abbondanza negli Usa e in tutto il mondo: era poco costoso, efficace e, se paragonato ad altri pesticidi usati in precedenza, era anche meno tossico. Almeno in apparenza. Nel 1972 infatti il governo degli Stati Uniti decise di vietarne l’uso proprio in virtù degli impatti sulla salute umana e sull’ambiente. Ma la sua storia non era affatto finita.

Professoressa Conis, perché un libro sul Ddt?
EC Nei primi anni Duemila avevo partecipato a un seminario in cui uno dei relatori aveva avanzato l’idea che fosse necessario tornare a usare il Ddt per controllare la diffusione della malaria. Quel commento mi ha sorpreso: la sua tossicità, allora vietata da quasi trent’anni, era nota a tutti. Eppure molti concordavano con quella proposta. La cosa mi ha incuriosito, pensavo che l’opinione pubblica sul Ddt si fosse spostata, o fosse sul punto di farlo. E cambiare idea in modo così radicale su tecnologie o informazioni scientifiche non è frequente. Così ho iniziato a studiare questo processo e la storia del pesticida.

Nel suo libro lei analizza le modalità con cui l’industria del tabacco ha strumentalizzato il Ddt per promuovere i propri interessi. Che cosa è successo?
EC L’industria del tabacco Usa aveva anticipato il divieto federale all’uso del Ddt nelle proprie coltivazioni per poter esportare in Europa, dove già erano stati introdotti dei limiti all’uso del Ddt. Ma negli anni Novanta ha iniziato a finanziare una campagna di comunicazione che promuoveva il ritorno all’uso di questa sostanza, senza però avere un reale interesse perché questo avvenisse: quello che voleva era minare il sostegno attorno al ruolo delle istituzioni nella regolamentazione all’uso di determinati prodotti. In quel periodo, infatti, c’era una crescente attenzione -della scienza e dell’opinione pubblica- sui danni provocati dal tabacco e dal fumo passivo e si stava discutendo della necessità di introdurre dei limiti. 

Quale era il contenuto di quella campagna?
EC Si affermava che dopo il divieto all’uso del Ddt il mondo aveva perso l’arma più potente nella lotta alla malaria che, di conseguenza, si stava diffondendo nelle zone più povere -in particolare in Africa- uccidendo soprattutto i bambini. In questa versione della storia, le nazioni ricche e industrializzate avevano pensato solo a loro stesse quando avevano vietato l’uso del Ddt. Il messaggio della campagna era: non bisogna fidarsi dei governi delle nazioni ricche per definire le agende o le politiche sanitarie globali. Sostenendola, l’industria del tabacco ha cercato di indebolire i tentativi di regolamentazione dei suoi prodotti perché voleva potersi autoregolamentare.

Elena Conis, scrittrice e storica della medicina, ricercatrice presso l’Università di Berkeley in California © Elena Conis

Questa storia sembra avere molti punti in comune con i dibattiti odierni su cambiamento climatico o inquinamento. Possiamo fare un parallelo tra quella vicenda e l’oggi, in particolare per quanto riguarda il ruolo delle corporation?
EC Si, assolutamente. Conosciamo bene il modo con cui l’industria dei combustibili fossili ha negato a lungo le prove del riscaldamento globale, ha finanziato i propri “esperti” per diffondere l’idea che il cambiamento climatico fosse una questione scientifica non risolta o non provata. L’industria chimica aveva fatto esattamente le stesse cose negli anni Cinquanta, quando cioè era finita sotto scrutinio per gli impatti dei suoi prodotti su salute e ambiente. Le strategie adottate allora sono le stesse che vediamo oggi: negare le prove esistenti e sostenere quelle favorevoli al loro punto di vista, mettere in contatto i giornalisti che si occupano di temi critici con esperti che supportano le posizioni dell’industria. L’aspetto curioso del ruolo di Big tobacco nella storia del Ddt è la mancanza di un interesse diretto. Era un modo per minare il dibattito scientifico sui rischi per la salute legati al consumo di tabacco, ma senza parlarne apertamente. E questa è una delle modalità più insidiose con cui le aziende instillano i dubbi nell’opinione pubblica.

Non mancarono campagne denigratorie di cui è stata vittima Rachel Carson, la biologa autrice di “Primavera silenziosa” (1962), che ha denunciato i danni causati dal Ddt.
EC Si tratta di una strategia altrettanto comune: attaccare l’individuo per colpire il messaggio. Negli anni Sessanta per l’industria chimica è stato facile prenderla di mira a causa delle norme culturali e di genere del tempo. Chi la criticava diceva che non ci si poteva fidare di lei perché era donna, l’hanno definita “zitella” e “comunista”. Negli anni Duemila, Carson era diventata un’icona dell’ambientalismo ma la campagna di comunicazione finanziata dall’industria del tabacco l’ha accusata di essere la responsabile della morte per malaria di milioni di bambini in Africa. 

L’uso del Ddt è stato vietato ma altri pesticidi continuano a essere utilizzati massicciamente. L’Unione europea si è impegnata a ridurne l’uso del 50% entro il 2030, ma c’è una forte resistenza. Non abbiamo imparato nulla dalla lezione del Ddt?
EC Penso che abbiamo imparato molto e questo si riflette nell’obiettivo di dimezzarne l’uso. Ma paradossalmente dopo la pubblicazione di “Primavera silenziosa” nel 1962 e la messa al bando del Ddt negli Stati Uniti nel 1972 l’uso dei pesticidi è aumentato a livello globale. Quando un set di queste sostanze viene abbandonato perché causa dei problemi finiamo inevitabilmente per passare a una diversa tipologia di prodotti, per poi capire che hanno altre criticità, eliminarli e passare a un’altra serie ancora. Quando invece il traguardo da raggiungere -indicato anche da Rachel Carson- è quello di ridurne la dipendenza. Ci sono interessi incredibilmente forti dietro l’uso di queste sostanze: l’industria chimica ha bisogno che questa dipendenza rimanga stabile, altrimenti il suo modello di business è destinato a crollare. Fino a quando non saremo tutti d’accordo sul fatto che esiste un altro modo di produrre le colture necessarie alla nostra sopravvivenza senza introdurre sostanze chimiche nocive nell’ambiente rimarremo sempre bloccati nello stesso punto. In questi cinquant’anni i pesticidi si sono evoluti, continuiamo a svilupparne di nuovi per tenere sotto controllo i parassiti, ma quello di cui probabilmente abbiamo davvero bisogno è un modo completamente diverso di gestire i nostri rapporti con gli insetti che “minacciano” le nostre colture.

In che modo sono cambiati i pesticidi? Quelli che usiamo oggi sono diversi rispetto al passato?
EC Sono diversi da un punto di vista chimico e meccanico: non funzionano allo stesso modo e non contengono le stesse sostanze chimiche di base. Il Ddt, ad esempio, appartiene a una classe di sostanze a base di cloro molto persistenti nell’ambiente. Li abbiamo in gran parte sostituiti con altre sostanze, gli organofosfati: meno persistenti, si decompongono molto rapidamente ma sono molto più tossici per il sistema nervoso. Ora utilizziamo sempre più spesso un gruppo di sostanze chiamate neonicotinoidi che vengono somministrati come pesticidi sistemici: vengono quindi assorbiti nei tessuti della pianta, invece di essere spruzzati. E che sono responsabili della moria di api a cui assistiamo oggi. 

Gli obiettivi Ue sulla riduzione dell’utilizzo di pesticidi

Il 22 giugno 2022 la Commissione europea ha presentato la sua proposta di regolamento sui pesticidi chimici, che prevede di ridurne l’uso del 50% entro il 2030. Si tratta della prima legge europea che fissa target obbligatori e impone agli agricoltori una riduzione nell’uso di queste sostanze. Ciascun Paese membro dell’Unione deve fissare i propri obiettivi di riduzione. La proposta, presentata da Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea e incaricato delle riforme del Green Deal, prevede anche di vietare l’uso dei pesticidi in determinate aree come quelle vicine a scuole, ospedali, parchi e aree da gioco

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