Meno qualità e più mercato per il vino Ue
Lanciata in estate, la riforma del mercato comune europeo del vino proposta dal commissario all’Agricoltura Marianne Fischer-Boel punta a favorire la competitività sui mercati internazionali, tralasciando la qualità del prodotto. Permette, tra l’altro, l’invecchiamento del vino con trucioli di legno invece che in botte.
Altreconomia intervista Alessandro La Grassa, presidente del Cresm (Centro di ricerche economiche e sociali per il Meridione) e fra i promotori del Distretto vitivinicolo della Sicilia occidentale, una risposta delle aziende e cooperative vinicole delle province di Trapani e Palermo (vedi Ae n. 75, settembre 2006) alla riforma della Politica agricola comunitaria e alle direttive in materia vinicola. È di ritorno da un missione in Australia, uno dei nuovi Paesi produttori e (grandi) esportatori di vino, uno di quelli che stanno “rubando” il mercato al vino Ue.
1. La recente normativa in materia vinicola approvata dall’Unione Europea, volta a “rendere competitivo” il vino europeo sui mercati internazionali, rende possibile (tra l’altro) l’invecchiamento coi trucioli invece che in botte, senza alcun obbligo di segnalare in etichetta le caratteristiche qualitative del prodotto. Viviamo una sorta di “corsa al ribasso”, in termini di qualità, legata alla difficoltà del mercato mondiale del vino. Cresce l’offerta ma non la domanda. Quali sono, oggi, i problemi principali del settore?
I problemi sono molti e diversificati in base alle zone di produzione. In generale si può dire che c’è un problema di sovrapproduzione e, contemporaneamente, si assiste ad un calo dei consumi nei mercati di riferimento per il nostro vino (soprattutto l’Europa e gli USA). A questo va poi aggiunto che l’aumento del prezzo del petrolio si ripercuote sui costi di gestione per tutto il settore agricolo. Per quanto riguarda il nostro Paese, finora non siamo riusciti a definire una strategia per il rafforzamento della nostra presenza sui mercati stranieri, come invece hanno fatto altri paesi, l’Australia in testa. Se guardiamo alla Sicilia, il problema è che –ad oggi– siamo riusciti a “qualificare” circa il 30% della nostra produzione (che è, in totale, di circa 6.000.000 di hl), con punte di eccellenza riconosciute in tutto il mondo, ma una parte consistente è ancora venduto come “vino sfuso” e ad un prezzo sempre più basso. Questo sta mettendo in grosse difficoltà circa 25.000 viticoltori, per lo più concentrati nelle province di Trapani e Palermo. Per ultimo, direi che dovremmo investire di più sulla diffusione della cultura del buon bere, dovremmo cercare di uscire dalla nicchia dei “super-appassionati”, e consolidare una sorta di “ceto medio” del vino e questo vale soprattutto per il Sud Italia.
2. Raccontaci l’Australia del vino: quali sono le caratteristiche del settore vinicolo australiano? Per quale motivo il vino australiano può invadere i mercati europei (e quelli dei Paesi tradizionalmente importatori di vino europeo, come gli Usa)?
L’Australia è un paese che non produce moltissimo (circa 13 milioni di hl di vino, poco più del doppio rispetto alla Sicilia), ma ha dalla sua un’enorme concentrazione del mercato (circa l’85% del mercato in mano a 5 aziende), un territorio che si presta ad una gestione molto razionale ed industriale dei vigneti ed una scuola enologica tra le più avanzate al mondo. Guardandolo da vicino, però, si vedono meglio anche i lati deboli di questo modello. Anche l’Australia sta soffrendo una crisi di sovrapproduzione e i suoi produttori hanno chiesto, finora invano, aiuti al Governo per estirpare una parte dei vigneti. Inoltre, se hanno puntato molto sul prezzo per invadere i mercati, talvolta lo hanno fatto in perdita. E adesso cominciano ad affiorare anche i problemi legati alla scarsa qualità di questi vini “seriali”. Va detto, poi, che l’Italia ha di recente recuperato il suo primato nell’export di vino verso gli USA, che le era stato strappato all’inizio del 2006 proprio dall’Australia.
3. Oltre all’Australia, Cile, Usa, Sud Africa sono gli altri competitors dei Paesi UE sul mercato mondiale. In particolare, l’Unione ha stretto con gli Stati Uniti d’America un accordo di libero scambio dei prodotti vinicoli. Quali sono i termini dell’accordo? Chi sono “i sommersi e i salvati” di questo processo?
Quello stretto con gli Usa è un accordo molto grave per tutta la politica vitivinicola di qualità fin qui promossa in Europa, una vera e propria marcia indietro. In sostanza, vengono “sdoganate” una serie di pratiche enologiche da sempre vietate in Europa. Questo creerà confusione e squilibrio sul mercato, poiché per un periodo avremo vino che arriva sfuso o in bottiglia dagli USA con tecniche vietate in Europa (compreso l’aggiunta di acqua fino al 7%). Per cui o ci adatteremo applicando le stesse norme (e seppellendo secoli di tradizione) o dovremo rassegnarci a perdere quote di mercato. Senza contare che l’accordo non serve nemmeno a limitare l’uso distorto che, negli Stati Uniti d’America, si fa delle nostre denominazioni di origine (esistono i Marsala e i Chianti della California), visto che chi lo ha fatto finora potrà continuare farlo. È un accordo capestro che ci lega mani e piedi alle “evoluzioni” della tecnologia enologica americana, monopolizzata da alcune multinazionali delle bevande. E, come se non bastasse, una volta firmato questo accordo, in base alle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), è come se lo avessimo firmato con il resto del mondo, poiché non potremo più negare un accordo simile a chiunque ce lo richiedesse. Un accordo, fra l’altro, che ha fatto da apripista alla riforma della cosiddetta Ocm Vino (il regolamento comunitario in materia di gestione degli aiuti e del mercato vitivinicolo europeo), voluta dal commissario europeo all’Agricoltura, la danese Fischer Boel. Una riforma iper-liberista che punta a destrutturate tutto il settore per dare mano libera ai grandi gruppi nazionali ed internazionali.
4. Qualcuno (Onorati, presidente di Crocevia, dalla pagine di “Carta”) ha accusato il Ministro delle Politiche Agricole De Castro di lavorare per difendere gli interessi delle lobby multinazionali piuttosto che i piccoli produttori. La realtà della vinicoltura siciliana, quella che conosci meglio, è fatta di (piccole, medie, grandi) cooperative di produttori. Come pensate di rispondere all’offensiva dell’UE? Cosa dovrebbe fare, a tuo parere, il Governo italiano, per difendere il proprio vino e l’occupazione nel settore vinicolo?
A partire dallo scorso anno, come Cresm abbiamo favorito la creazione del Distretto vitivinicolo della Sicilia Occidentale. Con tutte le organizzazioni sindacali aderenti, poi, abbiamo elaborato un nostro documento di proposta dell’Ocm vino, che abbiamo consegnato alla Regione Siciliana, perché lo faccia proprio. Inoltre abbiamo avviato numerose iniziative di concertazione con altre regioni a vocazione vinicola della Francia e della Spagna. Se sarà necessario, metteremo in atto delle iniziative coordinate a livello europeo. Contiamo però molto sull’interlocuzione con il Governo nazionale e con tutte le forze politiche più attente alla difesa dell’agricoltura di qualità.Noi pensiamo che la discussione sulla riforma del mercato del vino europeo vada inquadrata nel contesto più ampio della riforma della Politica Agricola Comune. Nell’Europa a 25 (o a 27) il peso dei paesi vinicoli si è ovviamente ridotto, ma non sarà impossibile trovare un accordo che faciliti una adeguata diversificazione della produzione agricola europea, evitando ulteriori problemi di sovrapproduzione.Senza tener conto che dobbiamo ancora mettere mano ad una seria programmazione delle cosiddette colture “energetiche” che per molti dei nuovi paesi Ue dell’Est potrebbero rappresentare una valida alternativa economica all’agricoltura tradizione.