Milano, 11 marzo: i dubbi sulla sentenza
Diciotto condanne a quattro anni e nove assoluzioni: si è concluso così, con pene severissime per quanto scontate dal ricorso al rito abbreviato, il processo di primo grado per le 27 persone arrestate a Milano l’11 marzo scorso dopo gli incidenti avvenuti in corso Buenos Aires.
E’ una sentenza ricca di paradossi e che alimenta molti dubbi. Il principale paradosso è che gli imputati hanno accolto le condanne come una liberazione: le pene sono pesanti, ma almeno sono tutti usciti dal cercere, dove hanno trascorso – anche i nove assolti – quasi quattro mesi. Questa lunga carcerazione preventiva appare oggi ancora meno giustificata di prima: il giudice ha concesso ai condannati gli arresti domiciliari, eppure la permanenza in carcere aveva un’unica giustificazione tecnica, ossia la “pericolosità sociale”. Perché allora questa concessione?
di Lorenzo Guadagnucci
Forse per farsi perdonare la severità della misura cautelare, inflitta a tutti gli arrestati, compresi i nove scagionati da ogni accusa? La sensazione, forte quanto sgradevole, è che il carcere sia stato usato come una “pena preventiva” nell’ambito di un procedimento di forte impatto mediatico ed emotivo, almeno a Milano.
Molti ricorderanno i fatti. Nel pieno della campagna elettorale per l’elezione del sindaco di Milano, alcuni attivisti di centri sociali organizzarono una “manifestazione antifascista”, in risposta a un corteo di Forza Nuova, autorizzato dalla questura. La manifestazione degenerò rapidamente in violenze teppistiche, ad opera di gruppi organizzati: furono incendiati negozi, fracassate vetrine, fu dato fuoco anche a una sede di An. Violenze indifendibili e condannate un po’ da tutti.
La polizia a un certo punto intervenne e arrestò una quarantina di persone, senza però mirare agli autori materiali degli atti di teppismo: fu preso chi non riuscì a fuggire in tempo o a nascondersi bene. Alcuni furono messi in manette nell’atrio di un palazzo. Dopo una prima scrematura, 25 giovani si ritrovarono in galera. Per gran parte di loro difendersi era pressoché impossibile: non venivano accusati di episodi specifici, ma di concorso in devastazione e saccheggio. In sostanza il reato era la partecipazione a una manifestazione durante la quale alcune persone avevano compiuto degli illeciti penali. Su questa base è stato condotto il processo, che ha forti analogie con quello contro i 26 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio per i fatti del G8 di Genova. Anche lì compare per alcuni imputati il principio del concorso morale – nella fattispecie della “compartecipazione psichica” – anche lì si contesta un reato, come la “devastazione e saccheggio”, che ha radici nel codice penale fascista e prevede pene abnormi: da otto a quindici anni (nel caso di Milano il rito abbreviato e l’assenza di precedenti hanno attenuato le pene).
Ancora non conosciamo le motivazioni della sentenza, ma le nove assoluzioni fanno pensare che il giudice dell’udienza preliminare abbia dovuto riconoscere – almeno per loro – la totale estraneità agli atti di teppismo, nonostante il pm avesse chiesto per tutti pene superiori ai cinque anni.
Aspettiamo ora di conoscere le prove considerate per emettere le sentenze di condanna, ma sempre tenendo a mente che il nucleo dei teppisti che organizzò e realizzò i danneggiamenti non è stato toccato.
Qualcuno, a caldo, ha commentato che la “sentenza è esemplare”. Può essere vero, ma nel senso opposto a quello sostenuto dai troppi benpensanti propensi a maneggiare con disinvolta leggerezza il codice penale. Questo processo potrebbe avere applicato, per la prima volta, un inesistente e
assurdo “reato di presenza”. Ne avremo la certezza solo quando conosceremo le motivazioni della sentenza, ma se così fosse, saremmo di fronte a un’autentica Caporetto delle libertà civili e delle garanzie costituzionali.