L’ultima generazione. Intervista ad Alex Zanotelli
“Questo sistema permette a pochi di avere quasi tutto a spese di milioni che muoiono di fame, e di fronte a questo noi siamo tutti ciechi, ciechi dalla nascita”. Che cosa dice lo conosciamo. Un po’ meno chi è, dove vive e che cosa fa nella vita “normale”. Anche se viene naturale chiedersi se esista una vita normale in esistenze che, per scelte e circostanze, appaiono eccezionali. Alex Zanotelli, prete e missionario comboniano, è tornato in Italia nel 2002.
Gli ultimi 14 anni li aveva passati in Kenya, 12 nella baraccopoli di Korogocho, uno dei tanti inferni della povertà che l’uomo ha creato su questa terra.
È giovedì, stiamo andando in macchina all’università Parthenope, i rappresentanti degli studenti hanno organizzato un incontro nell’aula magna a cui hanno invitato, tra gli altri, Marco Travaglio, il giornalista che per le sue inchieste e i suoi libri è diventato l’anima nera di Silvio Berlusconi, e Alex. In auto, a chi gli chiede se tornerebbe a Korogocho risponde: “Subito”.
Ci tornerà, per la prima volta, il prossimo gennaio, in occasione del Forum sociale mondiale che si terrà proprio a Nairobi. Ma è a Napoli che ha scelto di vivere, e ha messo radici. I primi tentativi sono dell’inizio 2003 (per mesi aveva pensato anche a un’altra città del Sud, Palermo), ma per più di un anno gira l’Italia in un tour folle, per incontri con gruppi, conferenze, istituti religiosi, campagne. Poi, alla fine del 2004 le cose cominciano a rovesciarsi: e oggi si può dire che ha preso casa nella città partenopea e limita per quel che è possibile le trasferte più lontane (per quel che gli riesce). Vive nel quartiere Sanità, uno dei più poveri e travagliati di Napoli. La sera lo spaccio è come alla luce del sole. Ma non è come a Scampìa, nelle sterminate periferie sorte negli ultimi decenni, qui è centro storico, c’è ancora un tessuto di relazioni sociali, una stratificazione di storie alle quali si può tentare di appendere anche i panni della propria vita, come sui fili stesi tra i vicoli. Alex ci crede, dice che c’è vitalità tra questi vicoli, e ripete, qui e dove gli capita di parlare, che però bisogna uscire dall’individualismo, bisogna fare rete. Ovunque.
Con Alex passiamo insieme il giovedì e il venerdì della settimana dopo Pasqua. Chi lo conosce dice che sono giorni tranquilli. Io non avrei detto. Ci si incontra a casa sua, in piazza della Sanità, per un caffè; alle 9 lui non c’è, ma si entra ugualmente, sono in diversi ad avere le chiavi. Poi arriva, ed è come se qualcuno, fuori, accendesse una luce verde o appendesse un cartello con su scritto: “Alex c’è”. La gente del quartiere incomincia ad arrivare, a dare voce: chi ha bisogno, chi prende un foglio, chi s’invita. La casa è aperta.
D’altra parte, più che una casa sono tre piccoli spazi, forse di 8-9 metri quadrati, disposti in verticale attorno a una strettissima scala a chiocciola, tre piani più il pianterreno. Si entra e l’atrio è un piccolo archivio di volantini, qualche libro aperto e iniziative appese ai muri. Uno dei libri è quello fotografico pubblicato dalla Emi “WNairobiW”: tra le foto di Korogocho ce n’è una (una sola) bellissima di Alex. Allora aveva ancora i capelli neri. Ora sono quasi tutti bianchi. Ha 68 anni, va per i 69.
A Napoli, dunque. Giovedì mattina. Alle 11 Alex ha una conferenza stampa a Palazzo Serra di Cassano sul problema dell’acqua (il 30 gennaio, lui e gli altri, hanno ottenuto una vittoria storica: convincere i 136 Comuni che fanno parte dell’Ato 2 di Napoli a ritirare la delibera che avrebbe dovuto portare alla privatizzazione della gestione dell’acqua; si aprono quindi le porte a una gestione in house, cioè pubblica, e la notizia fa rapidamente il giro d’Italia, perché quello che è accaduto qui può fare da modello anche per altre città). Alle 14 si è di nuovo a casa a mangiare un boccone (e nel frattempo a parlare con qualcuno del quartiere che ha bisogno di ascolto); poi alle 15, appunto, in auto all’università Parthenope.
Alle 19 nella piccola cappella di casa c’è l’appuntamento con un gruppo di donne di “ascolto della Parola”, poi una cena frugale attorno a un piatto di insalata e infine -dovrebbe essere alle 21 ma va bene anche più tardi- appuntamento come ogni settimana alla comunità dei Cristallini per la lettura continua del Vangelo di Marco. Si torna a casa che è quasi mezzanotte. Alex lavora ancora un po’ prima di coricarsi. La mattina (la sua sveglia suona alle 6,30) lo ritrovo su alcune mail cartacee: non c’è telefono in casa, né televisore, né computer, né internet e neppure cellulare.
Chi cerca Alex deve fare ponte sugli amici o sulle donne di Napoli.
Un’amica gli scarica la posta, duecento-trecento mail ogni due o tre giorni, e lui risponde, come e quando può. Per gli articoli (per esempio quelli mensili su Nigrizia) o le prefazioni ai libri, lui parla a braccio (al telefono o a un registratore), qualcuno sbobina, e poi, eventualmente, lui rivede i testi. Di fronte a un caffè facciamo l’intervista che segue. Poi, mentre stiamo uscendo arrivano, inaspettati, due frati che gli chiedono consiglio. Ci si risiede. Le variazioni al programma sono continue. Molto africano: i programmi contano, le persone di più. Quindi è la volta di Alex nella comunità per tossicodipendenti di Rosario, sempre alla Sanità: si organizzano i prossimi passi insieme, e sono già le 11. A mezzogiorno deve parlare al “Mazzini”, una scuola superiore, con altri tre giovani che fanno parte del comitato rifiuti (tre ragazzi giovanissimi: uno studia filosofia, l’altra beni culturali, la terza medicina).
Quando parla Alex, i ragazzi del “Mazzini”, una settantina, sull’orlo di scappare perché si è fatto tardi si zittiscono e man mano sono come affascinati. “Siete voi l’ultima generazione” gli racconta il “pretino”, come lo chiama Beppe Grillo, che ha imparato, nelle decine di spettacoli in cui si sono incontrati, a stimarlo e a volergli bene. Prima di iniziare l’incontro, Luigi, il futuro filosofo che fa anche parte del comitato rifiuti, mi dice: “Alex è stato determinante per la formazione del comitato”. Poco prima delle 3 del pomeriggio prende il treno per Roma, dove deve parlare in un istituto religioso. Dormirà lì, poi tornerà in treno all’alba a Napoli per ripartire la notte in nave per Palermo. Perché non in aereo Alex? “Sì, qualche volta succede, ma tento di evitarlo.
Viaggio in treno, magari la notte, per risparmiare il tempo del giorno. Anche la scelta dei mezzi per spostarsi è importante”. È forse anche da questa sua ricerca della coerenza che dipende l’attenzione con la quale molti lo ascoltano. Ecco, forse sta qui la risposta alla domanda “ma che cosa fa a Napoli Alex?” Semplicemente c’è, e con il suo modo di fare, per le donne dei bassi, gli studenti delle università, i movimenti di base, tanti frammenti di Chiese, è un punto d’aggregazione, un uomo che, immerso come in un fiume troppo grande, con il suo esistere si prende la responsabilità di essere un ostacolo al flusso della corrente, a come le cose vanno da sempre, e attorno a questo punto si fermano, si accumulano, si aggregano in diversi. Qualche volta chi si ferma finisce con il formare una diga, come nel caso della lotta contro la privatizzazione dell’acqua, ma sono momenti, e Alex lo sa. “No, qui su Napoli per tante cose non mi sento un punto di riferimento; sento che ci stiamo muovendo e allora si diventa stimoli per processi di riaggregazione, perché il problema grosso è l’isolamento”.
Perché Napoli?
“Volevo scegliere la città: oggi la missione è soprattutto cittadina, sia qui sia nel Sud del mondo. Tra una ventina d’anni su 20 miliardi di persone 6,5 vivranno in megalopoli e 3,5 in baraccopoli o in zone degradate. È importante esserne parte. E Napoli, da Pozzuoli a Sorrento, è uno dei centri urbanizzati più grandi, forse 4 milioni e mezzo di persone, e con più problemi in Italia”
Niente telefono, niente computer, niente posta elettronica, e una casa davvero molto sobria. Perché?
“È una scelta di semplicità. Nella comunità comboniana ho da sempre contestato la scelta di vivere in conventi o in grandi case: meglio un inserimento semplice ma vero con la gente. Una volta le case, le strutture servivano, oggi ti fanno prigioniero. È la libertà di essere lì con la gente, al Sud come al Nord, è la scelta dei poveri. Io penso che è importante esserci nelle situazioni, non tanto quello che puoi o non puoi fare. Se tante comunità religiose decidessero semplicemente di essere presenti, di camminare con la gente, l’impatto sarebbe enorme. Qui basterebbe essere in due o tre per tentare una pastorale missionaria, per fare piccole comunità che ascoltano la Parola di Dio e poi la vivono. È la metologia missionaria che abbiamo imparato in Africa, e che adesso torna a noi. In questi casi vedi dei cambiamenti, anche più velocemente di quanto tu pensavi”.
Ma spesso invece le cose non cambiano proprio. Non ti capita mai di essere disperato?
“No, ho imparato che devi fare quello che puoi: errori e sbagli ne fai continuamente, perché nessuno sa quello che porta frutto oppure no, e lentamente impari dagli sbagli che fai. Ti dà molta calma questa cosa, la gente diventa una grossa fonte di ricchezza spirituale e umana”.
In questi giorni ti ho sentito citare tre volte le parole della via crucis del papa: “Questo mondo è diviso in due stanze, in una si spreca nell’altra si crepa”; e, ancora: “accumulare è rubare se il cumulo inutile impedisce ad altri di vivere”. Che cosa ne pensi?
“È raro sentire dire delle cose così, con questa chiarezza. Questo papa ha avuto delle parole significative. Nel primo discorso che ha fatto ha detto: questo mondo è stato salvato dal crocifisso, non dai crocefissori. Non è facile aspettarsi grandi cose, l’attuale papa non ha mai avuto contatto con la miseria, con l’umanità dolente… Se vieni da un’esperienza in cui non hai toccato con mano i drammi della gente, gli immensi drammi di questo mondo, rischi di spiritualizzare tutto. Vale per la povertà ma anche per il problema ecologico. Quello che mi preme è questo sporcarsi le mani, il coraggio di fare scelte. Basta vedere come viviamo, come comunità cristiane, il tema della sobrietà o quello dei rifiuti: sembra che tutto questo non abbia mai a che fare con la morale, con l’etica”.
Tu parli continuamente della necessità di far rete. Ovunque. Ma è solo la Rete Lilliput o è anche altro?
“L’intuizione della Rete Lilliput è fondamentale e deve essere continuata. Il problema semmai è che Lilliput è diventata una associazione come le altre. Il tentativo invece è sempre quello di creare sinergie, senza rincorrere la paternità di tutto: l’importante è che le cose si muovano. A Napoli abbiamo puntato tutto sulla mobilitazione dell’acqua e abbiamo ottenuto una prima vittoria, ma ci siamo mossi anche per gli zingari, i rifiuti tossici, la militarizzazione del territorio: entro un paio d’anni è previsto l’arrivo a Napoli di 20 mila uomini delle forze Nato. Lilliput è nata in chiave territoriale, con un bel processo democratico dal basso, senza dover produrre delle figure a livello nazionale, il che non serve. Ma ci ritroveremo, perché il rischio è di non incidere. Le Filippine, qualche anno fa, hanno tentato la strada della rappresentatività: dopo Rio, la grande conferenza sull’ambiente, circa 8 mila realtà di base filippine si sono incontrate con il presidente dele Filippine ed è nata l’idea di avere una rappresentanza della società civile, 16-18 persone più 2 personalità scelte dal presidente nel mondo degli affari più altri due rappresentanti del governo: da questo comitato devono passare tutti i provvedimenti legislativi che riguardano l’ambiente. Anche qui da noi dobbiamo trovare qualche forma di sinergia tra realtà di base per pesare sui politici, sul parlamento, sul governo. Potrebbe essere un salto, ma sempre in chiave lillipuziana”.
Non abbiamo sottovalutato in questi anni il rapporto con la politica? E non c’è il rischio di contribuire a svuotare il ruolo delle istituzioni?
“No, io non lo vedo. È chiaro che le istituzioni devono cambiare per rispondere alle nuove situazioni che si sono determinate. Io non giudico le persone che, da militanti di base, fanno il salto e si candidano o entrano in politica: vorrei però che fossero coscienti dei limiti di questa scelta. A me fa molto piacere che in Brasile ci sia un governo Lula, ma è chiaro che oggi le grandi scelte non dipendono dalla politica ma sono asservite ai grandi potentati economico-finanziari. Dobbiamo tentare di salvare dal basso la democrazia, per riaffermare un primato della politica. Questo oggi i governi, i parlamenti non lo possono fare perché sono parte del sistema. Le Filippine hanno tentato una via formale, ma è una via che non vedo praticabile in Italia. Abbiamo bisogno di persone che non esprimano se stesse ma la base, persone che non cercano il potere, che rifiutano la via del potere, e ricercano uno stile di vita diverso anche personale: questa forse potrebbe essere una via”.
Alcune tue prese di posizione sul commercio equo, contro una possibile deriva “di crescita”, non rischiano di dividere anziché aggregare?
“No, non è questo l’obiettivo. Il rischio di costruire campi opposti c’è sempre, ma si tratta di coltivare il senso della riflessione critica senza creare nemici: la cultura del nemico è una delle cose più drammatiche. Ma il fatto è che il sistema è troppo attraente, non ti accorgi nemmeno che ti sta circuendo. Vivendo dentro questo sistema anche chi fa opposizione al sistema ne respira però le logiche. Se si resta zitti, questo sistema è talmente scaltro, talmente furbo che riesce a trasformare anche le cose più belle che facciamo, anche quello che chiamiamo ‘alternativo’ sta dentro il sistema. Basterebbe leggere il Vangelo di Giovanni: i cristiani sono ‘nel’ mondo, ma non sono ‘del’ mondo. Noi siamo chiamati ad essere ‘nel sistema’ ma non ‘del’ sistema. Così è importante che man mano che facciamo opposizione al sistema facciamo anche crescere delle alternative. Per esempio le prime comunità cristiane erano sicuramente delle comunità alternative all’impero romano, erano davvero dei tentativi di vivere in maniera alternativa. Una delle accuse che ci fanno è: ‘voi siete quelli del no’. Dimostriamo che non è così, facciamo crescere dei piccoli segni”.
Non rischiamo però di occuparci delle nicchie e non del cuore del sistema?
“Il problema è enorme. Banca etica e il commercio equo non risolveranno il problema, ma servono per far capire alla gente che si deve e si può cambiare. Abbiamo pochissima riflessione seria sul mondo finanziario, non analizziamo i fenomeni. Molti di noi non sanno neppure quel che avviene in questi campi, e in effetti non è facile conoscere e capire quello che avviene nel mondo della finanza”.
La prima cosa che mi hai detto, è stata rispetto al rischio di guerra atomica che corriamo. Davvero credi che il pericolo sia così alto?
“Attaccheranno. L’atomica fa parte omai della guerra preventiva, è scritto nei documenti ufficiali del dipartimento di Stato americano. Attaccheranno. Neanche durante la guerra fredda siamo stati così vicini a una guerra nucleare. E noi che cosa aspettiamo per far sentire la nostra voce? Che la guerra scoppi per poi fare una bella manifestazione con tre milioni di persone a Roma? Ma a me non interessa! Mi stupisce l’attendismo, la totale incapacità dei soggetti che si occupano di non violenza, di pace -ce ne sono centinaia in Italia- che non riescano a mettersi insieme, a far sentire la loro voce, ad avere un pensiero comune, una presa di posizione che incida sui politici, sui governi. Stiamo a puntualizzare sulle nostre diverse visioni ideologiche: stupidaggini di fronte al dramma! Il primo passo è che noi che lottiamo per la pace troviamo il modo di metterci insieme. Il secondo passo riguarda le Chiese: non è possibile che si dica che la menzogna è peccato e che non si trovi ancora il coraggio di dire che l’atomica è peccato. Ma le Chiese non prenderanno posizione se non ci sarà una presa di coscienza dal basso. Per me è davvero un momento tragico”.