A Londra nei giorni delle bombe
Londra – I treni non partono per Londra giovedì 7 luglio. Parto da Edimburgo -dove il summit degli 8 grandi che sono venuto a seguire ha perso ormai importanza-, verso Londra -dove quattro bombe hanno scritto l’ennesimo capitolo di questa guerra di inizio millennio- ma l'unica via è quella aerea.
Alle quattro e mezza del pomeriggio, sulla strada per l’aeroporto, ricevo un messaggio del ministero degli Esteri: “Se vi trovate a Londra o in Gran Bretagna –scrive- prego informare familiari vostro stato salute”. Lo faccio.
In attesa del volo i televisori dei bar aggiornano sugli attentati. La Bbc è molto cauta nel dare il numero delle vittime, che alle cinque del pomeriggio sono ancora ufficialmente 33. La stessa cautela viene utilizzata nell’attribuire la paternità dell’attentato.
All’imbarco del volo per London Stansted non c’è fila. Sull’aereo sono solo 48 i posti occupati, su 130. Tutti sembrano molto calmi.
Arriviamo a Londra in un'ora e mezza. Stansted dista parecchi chilometri dalla città. Ma non ci sono mezzi pubblici funzionanti, oggi, per cui l’unico modo è prendere un taxi. Sulla superstrada che porta a Londra, i cartelloni elettronici esortano “Avoid London today. Listen to radio”. Evitate Londra, ascoltate la radio.
Mi faccio lasciare dal taxi dalle parti di Algate, la stazione della metropolitana verso la quale era diretto il convoglio partito da Liverpool Street Station, e mai arrivato. La zona è già completamente isolata e, nonostante il via vai di auto della polizia, è relativamente tranquilla. Da lontano si intravedono le tende di emergenza sistemate appena fuori dalle rampe della metropolitana. Le strade sono vuote: la maggior parte dei pendolari sta cercando di tornare a casa (impresa improba senza mezzi pubblici: tanti se la sono fatta a piedi), molti altri hanno seguito le indicazioni del capo della polizia metropolitana e non si sono mossi da dove erano.
La calma è irreale per una città che ha appena subito un attentato di queste dimensioni. Un gruppo di impiegati esce da un palazzo, e lamentando la chiusura delle strade concorda un posto dove andare a cenare.
Il tassista che mi porta a casa non ha dubbi: “È colpa di Blair e della sua guerra” e per convincermi mi racconta anche una barzelletta sul premier. “Non è stata una sorpresa: ce l’aspettavamo” mi spiega.
Incollato alla tv, in serata, ascolto il discorso di Tony Blair, che nel frattempo è tornato a Gleneagles dagli altri “grandi”, per cena. È scosso ma deciso: “La nostra determinazione nel difendere il nostro stile di vita è più forte del terrorismo”.
Il giorno dopo le bombe, è la comunità musulmana ad essere al centro dei riflettori. A Londra un decimo della popolazione è di fede islamica (800 mila persone, quasi la metà di tutti i musulmani di Gran Bretagna).
Salgo su un bus a due piani, come quello esploso a Tavistock square: non sembra esserci paura sui volti della gente.
Il “double decker” mi porta a Finsbury park, a Nord, dove in Seven Sisters road ha sede il Muslim Welfare House, una “charity” che dal 1975 fa servizi di assistenza sociale per la comunità musulmana. Proprio in questi giorni il centro darà vita all’iniziativa “Giorni aperti” per raccontare ai non musulmani la comunità islamica. I giorni erano stati fissati 6 mesi prima. Lo scorso anno l’iniziativa aveva attirato oltre duecento persone. Oggi invece la preghiera dell’una ha attirato numerosi giornalisti.
Li accoglie Fadi Itani, libanese, executive director del centro da 5 anni. Cordiale e sorridente, condanna a nome della comunità la violenza terroristica. Ricorda che il 60% dei musulmani londinesi è nato qui, e che gli attentati avrebbero potuto colpire chiunque. Si aspettava questa attenzione, ed è sincero nel cordoglio verso le vittime.
A chi gli chiede se teme rappresaglie, dice di non avere paura, anche se questa è una reazione umana. D’altra parte i contatti per garantire sicurezza alla comunità islamica tra il centro e le autorità sono iniziati all'indomani dell’11 settembre 2001.
Non possiamo entrare nella moschea, ma i fedeli sono così tanti che molti pregano nel cortile esterno del centro, a uso dei fotografi. Gli altoparlanti trasmettono il sermone dell’imam, che in arabo e in inglese invita a pregare per le vittime.
A poche decine di metri di distanza, una dozzina di poliziotti controlla l’ingresso della moschea di St. Thomas road. Qui si dice i toni dei sermoni siano sempre stati meno “politicamente corretti”, tanto che la moschea è rimasta chiusa per diverso tempo, per riaprire solo 4 mesi fa. I cronisti, fotografi e teleoperatori sono tanti che la polizia li rinchiude letteralmente dentro l’isola pedonale dell’incrocio, per evitare che disturbino l’uscita dalla moschea dopo la preghiera. In effetti si ha la sgradevole sensazione che i fedeli siano trattati come un fenomeno, inquadrati come sono da obiettivi e telecamere.
Alcuni si avvicinano al recinto dei giornalisti. “Perché tutta questa attenzione nei nostri riguardi?” chiedono. E ancora: “Quando scoppiavano le bombe dell’Ira andavate davanti alle chiese cattoliche?”. Alcuni ragionano sull’accaduto: “Mai mi sarei aspettato che sarebbe potuto succedere in Gran Bretagna”.
Mi dirigo in metropolitana verso Tavistock Square, dove l’esplosione ha distrutto l’autobus a due piani della linea 30. Sui convogli non sembra esserci tensione o paura.In superficie, anche questa zona è isolata. Alti teloni impediscono la vista sulla piazza dove ancora è fermo quel che rimane del bus. Per la prima volta, si percepisce una certa tensione emotiva a pensare a quel che è successo al di là di quelle protezioni. Sul sagrato della chiesa di St. Pancras, in Upper Woburn Place, sono stati deposti una dozzina di mazzi di fiori. Uno è dei dipendenti del ristorante italiano che fa angolo con la via, un altro è di due turisti stranieri, Josè e Rosa.
Un grosso biglietto dice: “Ieri abbiamo lasciato una grande città. Oggi torniamo in una città più forte e più grande. La gente che ha fatto questo deve sapere che ha fallito. Hanno scelto la città sbagliata, Londra andrà avanti”.
Questi fiori sono sinora l’unica dimostrazione di cordoglio popolare che vedo. Più tardi, altri mazzi verranno deposti lungo le recinzioni che isolano la stazione della metropolitano di King’s Cross square, dove si lavora ancora per estrarre i corpi delle vittime. Sabato si terrà una veglia cui parteciperanno circa 2 mila persone.
Lungo le strade, intravedo un primo cartello che chiede notizie di uno dei 25 “missing”, le persone che dalla mattina di giovedì mancano all’appello e non hanno dato notizie di sé.
Verso le 20.30, improvvisamente la zona attorno al Parlamento viene evacuata e isolata. Tutto si svolge con una velocità e una efficienza impressionante. Nessuno perde la calma, come se fosse tutto normale. Dopo una decina di minuti l’allarme rientra e la zona viene riaperta.
Nel frattempo il numero delle vittime accertate continua a crescere. Nei giorni da 30 si passa a 40, poi cinquanta, infine ottanta. Sembra una precisa strategia di controllo della comunicazione, probabilmente predisposta direttamente dal governo in casi di attacchi del genere, che “diluisce” l’effetto dirompente di un numero molto alto di morti per evitare crisi e panico.
Forse anche questo, insieme a una innegabile capacità della popolazione di assorbire il colpo, contribuisce all’irreale tranquillità che si respira nell’aria di una città che è ritornata alla normalità (seppur armata) nel giro di poche ore. Quel che è certo, è che secondo i sondaggi pubblicati all’indomani degli attentati, la popolarità del premier Blair è cresciuta, e con essa la percentuale di inglesi che giudica molto buono il lavoro del governo in tema di terrorismo.