Una repubblica fondata sul cemento
Perché in Italia si continua a costruire, anche se non serve? Protagonisti, moventi e colpi di scena di un film senza lieto fine: il nostro ultimo libro
“L’Italia è una Repubblica fondata sul cemento”. Sono gli ultimi sessant’anni nella storia del nostro Paese ad averci imposto di riscrivere così l’articolo che apre la Costituzione del 1948.
Il diritto al lavoro, a un lavoro degno, non è più un principio fondamentale delle nostra democrazia. A governare il Paese sono invece il ciclo del cemento e quello della cementificazione: dalla “legge Obiettivo” del 2001 al nuovo Piano per il governo del territorio del Comune di Milano, del febbraio 2011, passando per il (fallimentare) “Piano casa” (2009), pure rilanciato dal governo in queste settimane. “Costruite!” sembra l’unico imperativo per rispondere alla crisi dell’economia. Sembra un incubo, ma è reale: alla fine del primo decennio del Ventunesimo secolo, è la panacea contro il segno “meno” davanti al tasso di crescita del prodotto interno lordo (Pil) del Paese è “più cemento per tutti”. La crisi climatica e quella ambientale ci dicono che la Terra reclama rispetto, ma l’Italia pare capace di rispondere solo con scelte che comportano un ulteriore consumo del suolo. Scelte insostenibili, perché il territorio del Paese -con i suoi 301.338 chilometri quadrati- non è infinito, e chi amministra non può non considerare il limite della superficie che possiamo ancora permetterci di urbanizzare. Dal 1990 al 2005, secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica (Istat), in Italia sono andati perduti ben 3 milioni e 663mila ettari di terreni agricoli. In media, in Italia il “suolo libero” è diminuito di oltre il 17 per cento. Ma in alcune regioni, come la Liguria, la superficie non costruita si è quasi dimezzata negli ultimi quindici anni. È ciò che si chiama “consumo di suolo”.
Nel rapporto annuale del 2008, l’Istat mette in evidenza “un’accelerazione senza precedenti” dell’urbanizzazione, “che si è prodotta in assenza di pianificazione urbanistica sovra-comunale in importanti aree del Paese (Mezzogiorno, Veneto e Lazio tra tutte). Nel periodo 1995-2006 i Comuni italiani hanno rilasciato in media permessi di costruire per 3,1 miliardi di metri cubi, il 40% dei quali per edilizia residenziale (22,3 metri cubi all’anno per abitante) e il rimanente per attività produttive”. Un paragrafo del rapporto è dedicato alla “dinamiche recenti dell’urbanizzazione”. Guardando alle superfici edificate, l’Istat nota che nel 2001 le aree urbanizzate (cioè le località abitate individuate in occasione dei censimenti) includevano il 6,4% del territorio nazionale, con un incremento del 15 per cento rispetto al 1991. Nello stesso periodo la popolazione è cresciuta soltanto dello 0,4 per cento. È ciò che possiamo definire “cementificazione”.
E si continua a costruire nonostante l’Agenzia del territorio abbia censito, al 31 dicembre 2008, uno stock di “immobili a disposizione” di 4,99 milioni di unità immobiliari (tra abitazioni e pertinenze), pari a quasi il 10% di 50 milioni di unità immobiliari di proprietà di persone fisiche.
Il prossimo censimento, in programma in questo 2011, ci regalerà senz’altro sorprese: dall’inizio del secolo, infatti, la legge permette agli enti locali di utilizzare il 75% dei contributi che riceva a titolo di “oneri di urbanizzazione” per finanziare la propria spesa corrente. Gli oneri di urbanizzazione dovrebbero tradursi in strade residenziali, spazi di sosta o di parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell’energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato, e anche in asili nido e scuole materne, scuole dell’obbligo nonché strutture e complessi per l’istruzione superiore all’obbligo, mercati di quartiere, delegazioni comunali, chiese e altri edifici religiosi, impianti sportivi di quartiere, aree verdi di quartiere, centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie. Ciò che serve, insomma, per non fare della nuova lottizzazione una favela o un dormitorio, come accade quando gli oneri di urbanizzazione servono a tappare buchi nelle casse degli enti locali. Basta spulciare i bilanci dei Comuni per rendersi conto che il giochino vale circa 3 miliardi di euro. E il provvedimento, pensato come transitorio, è diventato indispensabile, tanto che l’Associazione nazionale dei Comuni italiani (Anci) ne ha fatto “la” propria battaglia in sede di approvazione della legge Finanziaria e del decreto “milleproroghe” 2011. Piccoli (e grandi) Comuni che elargiscono licenze edilizie a piene mani sono “i mangiatori di terra”, e innescano la spirale “nuovo insediamento-nuova strada per raggiungerlo-nuovi insediamenti lungo la strada”.
Sul tema ha fatto luce, allargando l’analisi, Paolo Pileri, responsabile scientifico dell’Osservatorio nazionale sul consumo di suolo e ricercatore presso il Politecnico di Milano: “Per come stanno le cose oggi in Italia, il suolo continua ad essere considerato una risorsa monofunzionale, ovvero una risorsa economica per il privato che può guadagnarci e per il pubblico che pure può guadagnarci attraverso la riscossione degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione. […] se ad interrompere il circuito sarà il mercato, la preoccupazione è che ciò possa accadere troppo tardi, ovvero quando si sarà accumulata una quantità di immobili ben oltre la necessità e quando quindi saranno andati compromessi terreni utili per l’agricoltura, la natura e le diverse necessità sociali”.
Questo rapporto di reciproca dipendenza ha fornito la trama a numerosi “film”, la cui sinossi analizza in maniera ogni volta diversa tema della cementificazione, sviscerandolo.
Il lungometraggio che abbiamo “girato” attraversa tutto il Paese. Vi porterà a conoscere qualcosa della “filiera grigia” che parte dalle cave di ghiaia e di argilla, passa per i 90 impianti italiani in cui si produce cemento e finisce spalmato in decine di cantieri di piccole e grandi opere. Migliaia di capannoni. Condomini. Strade. Scuole.
I registi sono le banche, gli attori protagonisti sono gli enti locali e l’amministrazione dello Stato, cavatori, cementieri, appaltatori e subappaltatori, grandi imprese di costruzioni. Sono poco più comparse i dipendenti delle imprese, a volte impegnati come stunt man in scene pericolose. I cittadini rischiano di essere solo una “folla” passiva, che tutt’al più, nelle successive scene di massa, intasa autostrade, parcheggi e ipermercati. A meno che qualcuno non si metta di traverso, inceppando la betoniera.
Come il sindaco di Povegliano Veronese (Vr), Anna Maria Bigon: l’unico primo cittadino d’Italia a esser famoso non per aver inaugurato qualcosa, ma per averla rasa al suolo. In questo “corto d’autore” (che abbiamo raccontato sul numero 124 di Ae) è protagonista la scuola elementare del paese, costruita con calcestruzzo di scarsa qualità e fatta abbattere dal sindaco. Non in tutti i Comuni però si trovano primi cittadini così: coraggiosi, disposti a tirare dritto e spendere soldi, competenze, tempo e fatica per tutelare la sicurezza dei propri concittadini.
Non sempre ci potrà essere l’“happy end”. Proprio il principio dell’aggiudicazione al “massimo ribasso” è stato recentemente rafforzato dal nuovo “codice dei contratti” del 2006: i regolamenti attuativi, in vigore da giugno 2011, aboliranno il meccanismo di eliminazione automatica di ribassi “anomali”. Un grimaldello. Questo esempio e i molti altri raccolti nel libro Le conseguenze del cemento dimostrano che la “filiera grigia” ci riguarda. È un film-verità girato sotto i nostri occhi. Scene drammatiche davanti alle quali, come cittadini dovremmo sentire l’obbligo di intervenire. La corsa a costruire continua sempre, comunque e ovunque, anche in deroga o grazie a una variante quando non è possibile farlo nei termini di legge: a monte questo comporta lo scempio delle nostre montagne, degli alvei dei fiumi e delle pianure alluvionali, che per chi è dentro la “filiera grigia” non sono altro che un gigantesco bacino di materie prime a buon mercato. Questo libro spiega il meccanismo e l’intreccio di interessi che porta a costruire i porti turistici, campi da golf con resort annessi, volumi enormi sulle aree dismesse degli scali merci ferroviari, nuovi stadi che-altro-non-sono-che centri commerciali. L’“interesse” dei cavatori è che il fabbisogno di materia prima resti alto.
L’interesse delle banche è l’apertura di cantieri imponenti, perché i “prestiti” concessi ai signori del cemento e ai palazzinari a bilancio non sono debiti ma “impieghi”, segni più L’interesse degli enti locali e del governo è quello di far cassa. E se davvero inceppassimo la betoniera, potrebbe ridursi anche la produzione di cemento, che ci vede in pole position a livello europeo. Un record non invidiabile, considerando che quasi ovunque in Italia i cementifici sono degli inceneritori mascherati. Il cemento, vorrebbero farci credere, è anche una risposta alla cosiddetta “emergenza rifiuti”.
Siamo dunque chiamati a recitare un ruolo. Ma che cosa possiamo fare? Frenare il consumo di territorio non è nell’agenda dei partiti, ma resta, per il momento, nel campo d’azione dei “movimenti”. Il Manifesto nazionale del movimento “Stop al consumo di territorio”, promosso nel gennaio 2009, a cui ha aderito anche la redazione di Altreconomia, chiede “una nuova politica urbanistica ispirata al principio del risparmio di suolo, che porti ad indirizzare il comparto edile sulla ricostruzione e ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio esistente”. “Il limite di non ritorno, superato il quale l’ecosistema Italia non è più in grado di autoriprodursi -scrivono i promotori- è sempre più vicino”.
Una voce fuori campo, forte e chiara è quella del Comune di Cassinetta di Lugagnano, in provincia di Milano, l’unico in tutto il Paese ad aver approvato un Piano di governo del territorio (Pgt) a “crescita zero”. Ma il copione nella maggior parte dei casi è un altro. Ne è un esempio il nuovo Pgt della città di Milano, che descriviamo nell’articolo sotto. E non potrebbe essere altrimenti, nel Paese dei Ligresti, dei Gavio e dei Caltagirone, dei Pesenti e dei Colaiacovo, dei Benetton e degli Astaldi.
seconda apertura
IL COMUNE HA APPROVATO IL SUO PIANO DI GOVERNO DEL TERRITORIO
il sacco di milano
Milano sarebbe un set perfetto se il compianto Dino Risi potesse girare un remake del film “Le mani sulla città”, che nel 1963 vinse il Leone d’Oro a Venezia.
Nella prima inquadratura, dall’alto, ci sarebbero le gru tra i grattacieli già in costruzione nel nuovo quartiere Porta Nuova-Garibaldi, a fianco del nuovo Palazzo della Regione, che brilla con tutti i suoi specchi. Sorvolando il cielo grigio, la camera scenderebbe zoomando in piazza della Scala, per far entrare lo spettatore nella corte di Palazzo Marino.
È la sede storica del Comune di Milano. E in questo palazzo, a inizio febbraio, si è consumato “il sacco della città”: il consiglio comunale (in scadenza, quest’anno si vota) ha varato in quattro e quattr’otto il nuovo Piano di governo del territorio (Pgt) della città (che era in scadenza pure questo, e doveva essere necessariamente approvato entro il 14 febbraio). Circa 8mila tra osservazioni ed emendamenti dell’opposizione sono stati votati, senza esser discussi, divisi in otto blocchi “omogenei”.
Alla fine, non è facile nemmeno calcolare “quanto” si potrà costruire nei prossimi vent’anni. Perché, come ha ricordato Claudio De Albertis, presidente dell’associazione dei costruttori edili delle province di Milano, Lodi e Monza e Brianza, ma anche presidente del Tavolo delle infrastrutture della Camera di commercio di Milano per Expo 2015, “questo Piano è uno strumento programmatorio flessibile, non uno strumento pianificatorio”. È flessibile, ad esempio, perché il principio della perequazione prevede la possibilità di spostare volumi edificatori dall’area del Parco agricolo Sud Milano ad altre zone della città. Secondo alcuni, in totale potrebbe calare sulla città una colata di 18 milioni di metri cubi di cemento, pari a 160 grattacieli di 127 metri di altezza. Ma c’è chi arriva a stimarne 280.
Si costruirà negli scali ferroviari dismessi (vedi box). Si costruirà, però, anche all’interno di aree verdi: il nuovo Centro europea di ricerca biomedica avanzata, un progetto promosso dalla Fondazione Cerba, verrà realizzato in fondo a via Ripamonti, alle porte della città ma all’interno del Parco agricolo Sud Milano, su un’area di 620mila metri quadri. Sono del 2007 le delibere dell’ente Parco e della Provincia di Milano che eliminano i vincoli di edificabilità per l’area, dove si potranno costruire 310mila metri quadri. Il “caso Cerba” è emblematico: l’intervento è promosso dalla Fondazione Cerba, presieduta dall’oncologo Umberto Veronesi, che è senatore del Partito democratico. L’area è di proprietà di Immobiliare Costruzioni (Imco), società del gruppo Ligresti. La progettazione è stata affidata allo studio di Stefano Boeri, candidato (sconfitto) alle primarie del Pd a sindaco di Milano. Tra gli sponsor della Fondazione Cerba ci sono (in ordine alfabetico) Allianz, Capitalia, Generali, Intesa Sanpaolo, Mediobanca, Pirelli, Rcs, Sai (gruppo Fondiaria), Telecom e Unicredit.
Altrettanto emblematiche sono le previsioni del Pgt in merito all’edilizia abitativa. Secondo il Piano approvato, Milano nei prossimi vent’anni crescerà di 500mila abitanti, tornando a sfiorare quota 1,8 milioni. L’architetto Antonello Boatti, del dipartimento di Architettura e pianificazione del Politecnico di Milano, ha calcolato che il Pgt prevede la realizzazione di 508mila “vani” (stanze), oltre l’80% dei quali (412mila) di edilizia libera, ovvero privata. Eppure, secondo la ricerca “Fabbisogno di abitazioni a Milano e nella Provincia”, redatto da Boatti per conto della Cisl di Milano e del Sicet (Sindacato casa inquilini e territorio), il numero di nuovi vani di cui la città avrebbe bisogno fino al 2018 è “zero”. Milano avrebbe bisogno, semmai, di abitazioni di edilizia sociale e convenzionata, ricavate anche dal recupero dello sfitto (50mila vani) e dal riuso degli uffici sfitti (36mila). A questi “numeri” i ricercatori del Politecnico sono arrivati a partire dai dati sul fabbisogno abitativo del censimento 2011, aggiornati alla domanda abitativa maturata negli anni 2002-2008 e generata da matrimoni, convivenze, presenza di studenti fuori sede, l’arrivo di nuovi cittadini stranieri. Questi dati che sono stati incrociati con le dichiarazioni dei redditi: “Il target dell’edilizia libera sono cittadini con un reddito superiore ai 40mila euro all’anno. A Milano sono pochi, quindi o c’è un’evasione forsennata, oppure quelli che hanno i ‘soldini’ per comprare non ci esistono” spiega Boatti.
L’architetto definisce le scelte del Pgt uno “strabismo tra domanda e offerta”. Ma il sindaco Letizia Moratti e l’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli
di area Comunione e liberazione, indossano probabilmente altri occhiali, e pensano che gli immigrati che arrivano a Milano potranno acquistare uno degli appartamenti che Hines sta costruendo a Porta Nuova, in vendita a 9mila euro al metro quadro. Secondo il Comune, dev’essere un prezzo alla portata di tutti. Per questo un’osservazione al Pgt presentata dalla Cisl, secondo cui il Piano non interviene a ridurre “l’annosa questione dell’emergenza abitativa per le fasce sociali più deboli”, è stata respinta in modo secco: “Contesta l’impostazione del Piano in modo ideologico, ed è comunque fuori tema”.
box
nomi e cognomi
Un film tragico, di cui conosciamo protagonisti e trama. Ma che potrebbe riservare molti colpi di scena.
È Le conseguenze del cemento (160 pagine, 13 euro), il libro -inchiesta di Luca Martinelli sulla “filiera grigia italiana”, quella che sta soffocando il Paese sotto una colossale gettata di calcestruzzo. Ogni attore ha la sua parte precisa.
Si comincia coi cavatori: estraggono dal terreno e vendono gli inerti. Le cave spesso finiscono per diventare discariche. Poi è il momento dei cementifici, che spesso sono inceneritori di rifiuti mascherati da impianti industriali. Rifiuti che a volte finiscono anche nel calcestruzzo utilizzato dai grandi protagonisti del copione, gli immobiliaristi, che costruiscono ovunque e di tutto, dai resort agli stadi. La regia però è in mano agli istituti di credito: sono loro che decidono di investire i (nostri) soldi in progetti dubbi, che servono solo a imbellettare i loro bilanci con entrate stimate che non arriveranno mai.
Il conto lo paga l’ambiente, ovvero tutti noi.
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i binari dell’immobiliarista
L’immobiliarista che non ti aspetti, a Milano, ha il volto di Mauro Moretti, amministratore delegatodel gruppo (statale) Ferrovie dello Stato. Quasi il 20 per cento della capacità edilizia legata al nuovo Piano di governo del territorio della città, un milione di metri quadri, riguarda gli scali ferroviari dismessi (vedi Ae 112). Come qualsiasi costruttore, anche Fs Sistemi Urbani (la società che si occupa di “valorizzare il patrimonio del gruppo Fs non funzionale all’esercizio ferroviario”) nel novembre 2010 ha inviato al Comune di Milano una decina di pagine di osservazioni: avrebbe voluto costruir di più. Fs se la prende, in particolare, con gli obblighi imposti alla società di dedicare a social housing una parte dei comparti destinati all’edilizia residenziale. Tra le “controdeduzioni”, la maggior parte delle quali sono state respinte dal Comune, c’è anche la richiesta di “ridurre la percentuale minima a parco” per lo scalo di Porta Romana e “di ripristinare il quantitativo originario di 47mila mq di s.l.p.”, superficie lorda di pavimento, per Porta Genova. Dove le Ferrovie mostrano davvero il piglio dell’immobiliarista è nel paragrafo relativo all’Ambito di trasformazione urbana “Magazzini raccordati Stazione centrale”. Fs Sistemi Urbani chiede “un coefficente di densificazione non inferiore a 1,5 in rapporto al livello di infrastrutturazione esistente”. Significa prevedere, per ogni metro cubo, almeno un metro cubo e mezzo di costruzioni. Fs Sistemi Urbani giustifica la richiesta scrivendo che “con la trasformazione urbanistica si prevede la realizzazione di un nuovo fronte urbano dotato di funzioni commerciali, artigianali, pubbliche, espositive, etc, nonché di servizi per la collettività, la mobilità ed il trasporto che garantiscano, anche attraverso la realizzazione di un parcheggio, la continuità dei collegamenti tra i nodi infrastrutturali”. E, chiariscono i nostri neo-palazzinari, “l’indice di densificazione richiesto è coerente con le previsioni di