Ambiente
Un pieno di sabbia
Arriva dal Canada la benzina ricavata da bitume misto a terra. Per sfruttare i “giacimenti” Shell, Total e Bp hanno distrutto foreste e inquinato un fiume Quando finisce nel serbatoio della vostra auto, la benzina ricavata dalla lavorazione delle sabbie…
Arriva dal Canada la benzina ricavata da bitume misto a terra. Per sfruttare i “giacimenti” Shell, Total e Bp hanno distrutto foreste e inquinato un fiume
Quando finisce nel serbatoio della vostra auto, la benzina ricavata dalla lavorazione delle sabbie bituminose non è diversa dalle altre. Ma senza saperlo state farete un pieno che è costato al pianeta migliaia di chilometri quadrati di foreste. La benzina ricavata dalla lavorazione delle sabbie bituminose canadesi, depositi di sabbia e argilla mischiate con bitume e greggio in uno stato solido e semisolido, è già arrivata negli Stati Uniti d’America, e a breve potrebbe sbarcare anche in Europa. La “ricetta” per arrivare alla pompa di benzina passa per il taglio di foreste boreali e per l’inquinamento dei corsi d’acqua di uno degli ultimi paradisi naturali del pianeta, l’Alberta. Un conto salatissimo per l’ambiente e le popolazioni locali, che non spaventa per niente i giganti del petrolio: insieme al greggio ultra pesante (extra heavy oil) e al tar shale, le sabbie bituminose (tar sands, in inglese) rientrano nella categoria del cosiddetto non conventional oil. Il bitume può essere trovato molto vicino alla superficie, e in quel caso viene estratto impiegando le stesse tecniche adoperate per le miniere a cielo aperto, o più in profondità, situazione che necessita di tecnologie più sofisticate, essenzialmente con “iniezioni” di vapore ad altissima pressione. Le miniere comportano massicci disboscamenti e voragini profonde fino a 75 metri. Creano, insomma, un paesaggio lunare, senza vita, come quello nella foto qui accanto. Come se non bastasse, per la soluzione in situ, per produrre cioè il vapore indispensabile per separare il bitume dalle sabbie, occorrono enormi quantità di gas naturale che serve a portare alla temperatura d’ebollizione l’acqua.
Una volta “liberato”, il bitume viene poi processato per ricavarne una forma di greggio che viene definito sintetico.
Le compagnie petrolifere sapevano dell’esistenza di sabbie bituminose di cui è ricco il sottosuolo della provincia canadese dell’Alberta da quasi un secolo, ma sono rimaste inutilizzate. Di giacimenti di oro nero ce n’erano tanti in giro per il pianeta, e lo stesso Canada sembrava avere riserve quasi illimitate da poter sfruttare in maniera più “convenzionale” e sostenibile dal punto di vista economico. Poi la Guerra del Golfo ha reso meno accessibile il petrolio iracheno, le provviste di greggio sono diminuite, e nuove tecnologie hanno aumentato la fattibilità di operazioni complesse come per l’appunto la “caccia” alle sabbie bituminose. È allora che le rigogliose foreste boreali dell’Alberta (che catturano l’11 per cento delle emissioni di carbonio della Terra) sono finite sotto attacco. Il ground zero delle devastazioni operate nella regione è considerato il villaggio di Fort Chipewyan, sulle rive del fiume Athabasca e a valle di numerose miniere di sabbie bituminose. È lì che si è registrato il picco di tumori (30 per cento al di sopra dei valori nazionali) e di gravi deficienze al sistema immunitario. Sono numerose, però, le località sparse in tutta la provincia che patiscono gli effetti di un’attività al limite della sopportazione umana e dell’ambiente. Le comunità dei nativi canadesi già alla fine del XIX° secolo avevano siglato dei trattati con il governo federale, a tutela della loro cultura e i loro diritti, tra cui quello di “rispondere alla loro usuale vocazione di cacciare e pescare nell’ambito del territorio da loro abitato”, ma nonostante questo le operazioni estrattive sono andate avanti senza freni. Nel 2009 l’Alberta Health Services ha confermato che la percentuale di persone affette da cancro nell’area era molto elevata. Anche gli animali e i pesci, di cui si nutrono i nativi, sono spesso affetti da malattie e malformazioni (le riserve ittiche, ad esempio, “abbondano” di mercurio). Nel 2007 le autorità sanitarie di Fort Chipewyan hanno riscontrato nell’acqua corrente livelli molto alti di arsenico, alluminio, cromo, cobalto, rame, selenio, titanio, piombo e fenoli. Nel suolo era particolarmente allarmante la presenza di arsenico, cadmio, idrocarburi policiclici aromatici (Ipa) e altri acidi pericolosi per l’uomo, che diventano ancor più pericolosi se mischiati tra loro. Il rischio tumore derivante dalla miscela tra arsenico e Ipa, ad esempio, aumenta dalle 8 alle 18 volte.
Le riserve stimate di tar sands canadesi sono immense: si calcola che rappresentino la seconda maggiore riserva di greggio al mondo, per un totale di 174 miliardi di barili, e coprono una superficie di quattro milioni di ettari.
Un territorio più grande dell’Inghilterra. Le compagnie che operano in Alberta sono alcune delle “solite note”. Oltre a un novero di aziende locali, troviamo la anglo-olandese Shell, la francese Total, la norvegese Statoil, la statunitense ConocoPhillips e l’ormai tristemente famosa Bp, con sede a Londra. Tutte queste corporation hanno bisogno di voluminosi quantitativi di energia e acqua per estrarre le sabbie bituminose. Per un barile di greggio ricavato dalle sabbie si devono calcolare tra i due e i quattro barili di acqua. Non a caso la fonte idrica primaria per questo tipo di operazioni è il già citato Athabasca, che dopo un percorso di oltre 1.200 chilometri si immette nell’omonimo lago. Ogni anno 539 milioni di metri cubi d’acqua, in base alle licenze siglate con le autorità locali, finiscono nei macchinari dei giganti petroliferi. Solo il 5-10 per cento di questo enorme quantitativo torna a scorrere nel fiume senza tracce di inquinamento. Il resto, certamente più inquinato, sta causando quello che gli esperti definiscono “uno stress per l’ecosistema”. Per ricavare il bitume e separarlo da materiali superflui, in molti siti dell’Alberta sono spuntate delle “piscine” speciali e poco raccomandabili. Nel gergo tecnico si chiamano tailing ponds e sono dei laghi artificiali dove si accumulano gli scarti della lavorazione delle sabbie. Dentro c’è di tutto: argilla, silicio, ma anche idrocarburi e sostanze chimiche altamente tossiche. Il panorama dell’Alberta è punteggiato da questi piccoli bacini infernali. Nel 2009 coprivano una superficie pari a 130 chilometri quadrati e contenevano oltre 720 milioni di metri cubi di materiale nocivo alla salute. Nel 2008 le organizzazioni ambientaliste canadesi hanno calcolato che almeno 11 milioni di sostanze siano “percolate” fuori dai muri di contenimento. Visto che tanti ponds sono nei pressi dell’Athabasca (nella foto a sinistra), se si verificassero una serie di cedimenti strutturali ci troveremmo di fronte a una catastrofe ambientale con pochi precedenti nella storia recente. Intanto solo l’un per cento dei terreni violentati per le attività estrattive è stato ripristinato. La protesta a già portato le First Nations, le tribù dei nativi, a intentare cause legali e ad inscenare manifestazioni nei giorni delle assemblee degli azionisti di Shell e Bp. Ma la loro lotta si preannuncia lunga e molto difficile, visti gli interessi in ballo e i tentativi operati dalle compagnie petrolifere per “ingraziarsi” alcuni leader indigeni con minime concessioni che portano ben pochi benefici alle popolazioni dell’Alberta.
Gli impatti negativi, che sono ingenti a livello locale, possono essere misurati anche su scala globale. Il governo dell’Alberta e il comparto petrolifero locale evidenziano un aumento delle emissioni pari a “solo” il 10-15 per cento, ma le loro ricerche sono duramente contestate dalla quasi totalità degli accademici canadesi. Nella sostanza, tutti affermano che per il clima il tar sands è una maledizione. Secondo Greenpeace, nel 2007 il Canada ha rilasciato in aria il 26 per cento di gas serra in più rispetto al 1990, e nel 2009 superava del 34 per cento gli obiettivi imposti al Paese dal Protocollo di Kyoto. Come se non bastasse, le emissioni non tengono conto dell’esteso processo di deforestazione descritto in precedenza, tanto che in un recente rapporto di Friends of the Earth e Cee Bankwatch si ipotizza che entro il 2020 le emissioni derivanti dallo sfruttamento delle sabbie bituminose possano arrivare a circa 130 milioni di tonnellate di gas serra. Un pesante fardello che il nostro pianeta rischia di non poter più sopportare.
L’interesse della banca è più forte
Per le attività estrattive in Alberta servono 150 miliardi di dollari nei prossimi 20 anni. In buona parte, provengono da tre banche britanniche: Barclays, Hsbc e la Royal Bank of Scotland (Rbs). La prima, nell’arco di tempo che va dal 2007 al 2009, ha effettuato prestiti e garantito altre operazioni finanziarie per un totale di 14 miliardi di dollari a imprese coinvolte nel business delle sabbie bituminose.
È particolarmente delicata la posizione della Rbs, espostasi nello stesso periodo per quasi 13 miliardi di dollari. La banca fondata quasi tre secoli fa a Edimburgo è stata infatti travolta dalla crisi finanziaria che ha portato il mondo sull’orlo del precipizio nel 2008. La sua situazione era talmente compromessa che senza forti iniezioni di liquidità da parte dell’esecutivo britannico non sarebbe sopravvissuta: oggi l’84% delle sue azioni sono di proprietà dello Stato. In poche parole, la Rbs (nella foto la sede di Gogarburn) è ormai pubblica, e come tale dovrebbe rispettare gli stringenti standard operativi predisposti per la lotta ai cambiamenti climatici dal governo di Sua Maestà, come richiesto a gran voce dalla società civile di oltre Manica. Eppure il quotidiano inglese the Guardian ha rivelato che nel primo semestre del 2009 la Rbs aveva garantito finanziamenti per il settore estrattivo -a cui è sempre stata molto legata- per oltre 10 miliardi di euro. Sia il Parlamento di Westminster che la PricewaterhouseCoopers, società di consulenza finanziaria chiamata da Downing Street a esprimere un parere sulla vicenda, hanno sostenuto le istanze dei gruppi e delle Ong (con in prima fila Platform) critiche rispetto all’istituto di credito. Tuttavia la nuova politica sulla sostenibilità resa pubblica nel febbraio del 2010 dall’agenzia britannica per gli investimenti finanziari conferma la tesi che la banca, sebbene di proprietà statale, possa essere gestita “sulla base di interessi commerciali”, evitando quindi un accurato sistema di monitoraggio, un piano di sviluppo a lungo termine e in aderenza con i principi della lotta al surriscaldamento globale e soprattutto un ruolo attivo dei contribuenti.
Un attacco su scala globale
Il caso del Canada rischia di non essere isolato sul fronte delle sabbie bituminose. Nella Repubblica del Congo l’Eni sta esplorando una vastissima riserva (vedi Ae 105), ed è stato calcolato che nel sottosuolo la Giordania conserva 40 miliardi di tonnellate di tar shale, una forma di sabbia bituminosa differente rispetto a quella che si trova in Canada. La Shell si è impegnata a spendere oltre 500 milioni di dollari per le attività di esplorazione di un’area pari a 22.500 chilometri quadrati. La compagnia anglo-olandese ha in progetto di iniziare l’estrazione nel 2035 e di continuare fino al 2080. La tecnica impiegata sarà quella del surriscaldamento ad altissime temperature del bitume (un po’ come accade in Alberta con il procedimento in situ), il che comporterà l’utilizzo di immensi quantitativi di acqua. Quasi un paradosso, per un Paese che può contare su soli 200 metri cubi di acqua l’anno per persona (la media mondiale è di 8.700). L’unica soluzione possibile per accaparrarsi le risorse idriche è il canale tra il Mar Rosso e il Mar Morto, un’opera da almeno 10 miliardi di dollari che preoccupa enormemente gli ambientalisti e le popolazioni locali. A forte rischio sarebbe la splendida barriera corallina che rende famoso il Mar Rosso. Anche il Madagascar ha la sua riserva di tar sands, nelle immediate vicinanze del fiume Manambolo (da cui dipendono almeno 120mila persone) e della riserva naturale di Tsingy de Bemaraha, nella parte occidentale del Paese. Un sito presente dal 1990 nelle liste dell’Unesco per il pregio delle foreste e delle lagune che lo contraddistinguono. Ma in giro per il globo lo sfruttamento del non conventional oil ha già compiuto passi importanti in Venezuela, nel bacino dell’Orinico (dove il quantitativo di sabbie bituminose è il più cospicuo al mondo dopo il Canada), in Marocco e in Russia, mentre sono alle fasi iniziali in Stati Uniti, Nigeria, Angola, Egitto, Trinidad&Tobago ed Etiopia.