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Esteri

Un paradiso per tutti

Aprire una società offshore per eludere il fisco è alla portata di tutti: bastano internet e una carta di
credito. Ma i nomi dei Paesi a “fiscalità vantaggiosa” spuntano anche dai bilanci delle più importanti imprese italiane: la chiamano “pianificazione fiscale”

Tratto da Altreconomia 96 — Luglio/Agosto 2008

Il sito promette bene. Ecco i vantaggi che mi offre: “La proprietà dell’azienda non deve risiedere nel Delaware; eventuali trasferimenti di proprietà non devono essere registrati; il Delaware non ha registri pubblici delle proprietà delle aziende; il Delaware non ha un database accessibile al pubblico della gestione delle aziende”.

E non è finita: “Grazie alla protezione della privacyofferta dal Delaware, è più difficile per gli avvocati tracciare la proprietà e gli assetti proprietari”. Infine, la parte migliore: “Il Delaware non impone tasse sul reddito delle Llc (società a responsabilità limitata, ndr); non ci sono tasse di successione per i non residenti nel Delaware”. Insomma, se non si era capito thedelawarecompany.commi propone di aprire in maniera perfettamente legale una società in un paradiso fiscale. Il tutto per 299 dollari (per i primi sei mesi c’è anche lo sconto sulla registrazione, e risparmio 75 dollari), che posso pagare comodamente con la mia postepayda impiegato (o qualsiasi altra carta di credito). Il procedimento è semplice, i campi da compilare pochi, tutto si conclude in pochi minuti.
Le porte delle società offshoresono aperte a tutti. Non è più un’opportunità offerta solo a ricchi affaristi, scaltri manager, esperti fiscalisti. Basta una semplice ricerca su internet e di siti che offrono questo servizio se ne trovano a decine. Ma i paradisi fiscali non sono solo isole splendide e sperdute, Stati sudamericani o minuscoli principati europei. Questo piccolo Stato americano, che sta poco sotto New York e ha meno di un milione di abitanti, offre vantaggi simili per chi fa affari fuori dagli Stati Uniti. Tradotto vuol dire che i guadagni che la mia società, pagata 300 dollari, consegue fuori dal mercato Usa non pagano tasse in Delaware. E se per caso mi dimentico di dichiararli al fisco italiano, magari confidando nella “discrezione” dei funzionari del Delaware, le tasse non le pago proprio. Attenzione, perché questa si chiama evasione. E l’evasione fiscale si paga anche col carcere. Ma di aziende come quella che ho provato ad aprire io nel Delaware ce ne sono oltre 4 milioni: in molti in tutto il mondo devono aver deciso di correre il rischio.
Forti anche del fatto che il Delaware non rientra nelle “black list” dei paradisi fiscali riconosciuta a livello internazionale. Il piccolo Stato da parte sua ricava ogni anno circa 400 milioni di dollari dalla registrazione e dalle spese di mantenimento delle sue Llc. In questo modo si possono accumulare all’estero capitali ottenuti con attività realizzate in Italia, ma anche trasferire dall’Italia guadagni non dichiarati, o sui quali si vuole per lo meno rimandare il pagamento delle tasse.

Se poi traferite anche la residenza, il gioco è anche più facile.
Volete essere più sicuri? La carta prepagata potete farla aprendo un conto in Svizzera, o in Slovenia (territorio extra Ue), per pochi euro, e poi i soldi potete farveli rigirare su un conto cifrato (cioè coperto da segreto) svizzero o austriaco (perché forse non lo sapevate, ma anche l’Austria ha il segreto bancario). O al limite, fate un salto negli Stati Uniti, a Wilmington (la città più popolosa del Delaware, nella foto qui in alto; la capitale è Dover) e un poco alla volta portate i soldi a casa, stando bene attenti a non esagerare. Non saranno le Cayman, ma dev’essere un posto piacevole.

Scatole straniere per eni ed Enel
A chi appartengono due tra le maggiori multinazionali italiane? Il capitale sociale di Eni e Enel è detenuto per una quota di poco superiore al 20% dal ministero dell’Economia. Un altro 10% circa è in mano alla Cassa depositi e prestiti, che fa riferimento allo stesso ministero. È la maggioranza relativa: questo significa che il governo, e il ministero dell’Economia in particolare, è l’azionista di riferimento e controlla le due società. Lo stesso ministero che, tanto nella passata gestione quanto nelle prime dichiarazioni del neo-ministro Giulio Tremonti, sembra volere porre la lotta all’evasione e all’elusione fiscale come massima priorità.
È quindi interessante l’esame dei bilanci consolidati delle due compagnie, nei quali decine di pagine sono occupate da fitti elenchi di società controllate e collegate nei più svariati Paesi del mondo. Per quanto riguarda l’Enel, il Delaware fa la parte del leone. Sono circa 60 le società controllate direttamente o indirettamente dalla capofila Enel spa e registrate nello Stato considerato il paradiso fiscale degli Usa.
Un esempio: la Sheldon Springs Hydro Associates LP (Delaware) è controllata al 100% dalla Sheldon Vermont Hydro Company Inc. (Delaware), che è controllata a sua volta al 100% dalla Boot Sheldon Holdings Llc (Delaware), di proprietà al 100% della Hydro Finance Holding Company Inc. (Delaware), che è controllata al 100% dalla Enel North America Inc. (Delaware), controllata a sua volta al 100% dalla Enel Green Power International SA, (una holding di partecipazioni con sede in Lussemburgo), a sua volta controllata da Enel Produzione spa e Enel Investment Holding BV (altra holding di partecipazioni, registrata in Olanda). Entrambe queste imprese fanno finalmente riferimento all’impresa madre, la Enel spa.
Risulta lecito domandarsi se per vendere energia sia necessaria questa incredibile serie di scatole cinesi societarie. Tanto più che non si tratta di un caso isolato. Nel gruppo Enel troviamo società nelle Isole Vergini Britanniche e a Panama, senza considerare le partecipazioni di Endesa -la utility spagnola di cui Enel ha recentemente acquisito il controllo- in imprese registrate nelle Isole Cayman. Analogamente, mentre i nomi “Latin America Energy Holding BV” e “Maritza East III Power BV” lascerebbero supporre che parliamo di imprese attive rispettivamente in America Latina e in Bulgaria (centrale a lignite di Maritza), dal bilancio Enel scopriamo che queste società sono in realtà holding di partecipazioni con sede in Olanda. Paese che ospita oltre 20mila compagnie e imprese “nominali”, che non hanno presenza commerciale in Olanda. La Banca centrale olandese contava nel 2002 oltre 12.500 società finanziarie (Special Financial Institutions, Sfi) che erano presenti in Olanda almeno in parte per motivi fiscali. Le transazioni di queste Sfi sono ammontate nel 2003 a 3.600 miliardi di euro, oltre otto volte il Pil olandese. Proprio l’Olanda è la patria di elezione di decine di imprese controllate dall’Eni. L’azienda italiana -che gode di particolari deroghe dal fisco italiano, in virtù del tipo di attività che svolge- è presente in tutto il mondo. Scorrendo il suo bilancio consolidato, troviamo l’Agip Azerbaijan BV, la Agip Oil Ecuador BV, la Eni Algeria Exploration BV, la Eni Angola Exploration BV, la Eni Australia BV, la Eni China BV, la Eni Congo Holding BV, la Eni Croatia BV, la Eni Denmark BV, la Eni Energy Russia BV, la Eni Iran BV, la Eni Mali BV, la Eni Tunisia BV, l’Agip Caspian Sea BV, l’Agip Karachaganak BV e via discorrendo, tutte, invariabilmente registrate nei Paesi Bassi. Viene da domandarsi, all’interno della sua strategia per contrastare la fuga di capitali e l’evasione e l’elusione fiscale, quale sia il controllo esercitato dal ministero dell’Economia per evitare la possibilità di comportamenti fiscali per lo meno dubbi da parte di imprese di cui lo stesso ministero è azionista di riferimento. Un dubbio legittimo, se si ricorda che pochi giorni fa a dirigere l’Eni è stato confermato nel ruolo di amministratore delegato Paolo Scaroni (nella foto), che, come ricordava un piccolo azionista intervenuto nell’assemblea del 2007 (è agli atti), “mentre è capo di Eni, ha trovato il tempo di occuparsi dei suoi affari come privato cittadino, attraverso un trust col suo nome, ‘The Paolo Scaroni Trust’, domiciliato nel paradiso fiscale delle Isole Guernsey”.

Il trucco dello spazzolino
Le imprese multinazionali hanno messo a punto dei sistemi sempre più sofisticati per eludere ed evadere le tasse dovute. Le stime parlano di centinaia di miliardi di dollari persi ogni anno a causa di meccanismi quali l’abuso del transfer pricing. Gonfiando o diminuendo ad arte i prezzi, è infatti possibile per un’impresa multinazionale “aggiustare” i propri bilanci in modo da fare risultare in perdita
le filiali situate nei Paesi a elevata tassazione, mentre i profitti saranno concentrati
nei territori a bassa tassazione e nei paradisi fiscali. Negli ultimi anni si sono registrati casi di succhi di frutta venduti a oltre 1.000 dollari al litro, o di spazzolini da denti valutati 5mila dollari al pezzo. Questa tecnica che consiste nell’aumentare (o diminuire) in maniera fraudolenta il prezzo di trasferimento (o tranfer pricing, appunto) funziona particolarmente bene per quanto riguarda loghi, marchi e altri prodotti intangibili. È sufficiente registrare il proprio marchio in un paradiso fiscale. Tutti i beni prodotti dalla data impresa dovranno allora pagare i diritti (il copyright) alla filiale che detiene questo marchio, garantendo un flusso di denaro e di profitti dai Paesi in cui viene realizzata la produzione verso i paradisi fiscali. Questo accade perché, tranne alcune eccezioni, le compagnie devono riportare al pubblico i propri dati economici e finanziari unicamente in forma aggregata, e non suddivisi per i singoli Paesi in cui operano. In questo modo non è possibile sapere se un’impresa paga le tasse dovute in ogni Paese in cui opera o se fa uso di paradisi fiscali per eludere il fisco. Negli ultimi anni il Tax Justice Network, la rete di organizzazioni della società civile che lotta contro i paradisi fiscali (www.taxjustice.net), ha promosso una campagna internazionale che chiede una rendicontazione Paese per Paese dei dati economici e finanziari delle imprese multinazionali (“Country by Country reporting”). Si tratta di una richiesta elementare, senza praticamente nessun costo aggiuntivo per le stesse imprese.

La missione è pianificiare
Nel 1999, l’Antitrust italiano impose alla Parmalat di Calisto Tanzi (nella foto) di vendere a un concorrente sei marchi di latte per evitare che nelle mani dell’azienda di Collecchio si concentrasse una fetta troppo ampia del mercato. Parmalat unisce i 6 marchi nell’azienda Newlat, e la vende
a una semisconosciuta società delle Isole Vergini, che a sua volta la rivende a un’altra del Connecticut, che la rigira ancora a una con sede nel Delaware, e proprietari sconosciuti. Temendo si trattasse solo di prestanomi, e non di reali concorrenti, l’Antitrust bloccò l’operazione. Poco dopo, il crac del gruppo. Un altro esempio: delle 2mila società che componevano il delirio societario della Enron prima del fallimento, 675 avevano sede nel Delaware.Nello stesso Stato hanno sede Wal-Mart, General Motors, Ford, Boeing, Citigroup. Chevron Texaco, Coca-Cola. Senza scomodare casi giudiziari e rimanendo dalle nostre parti, sono molte le società italiane quotate in Borsa tra le cui controllate figurano società aperte nel Delaware o in altri Paesi con “fiscalità vantaggiosa”. Basta spulciare i bilanci consolidati, e in tutti emergeranno offshore sparse per il mondo. Oltre ad Eni ed Enel, di cui parliamo nel pezzo accanto, non sfuggono Unicredit, Intesa-Sanpaolo, Telecom, Assicurazioni Generali, Capitalia, Autostrade, Fiat. Molte di queste società controllate dai grandi gruppi (oltre al Delaware appaiono spesso Olanda, Lussemburgo, Irlanda -dove le aziende sono tassate al 12,5%, basta avere un amministratore delegato irlandese-) sono holding con capitali sociali minimini, anche solo di 14 dollari. In gergo si chiama “pianificazione fiscale”, ed è la prassi di cercare di ridurre il più possibile il carico fiscale anche attraverso l’apertura di società in Paesi terzi.

Elusione batte cooperazione
I Paesi più ricchi destinano al Sud del mondo circa 100 miliardi di dollari l’anno per finanziarie progetti di cooperazione internazionale. Secondo stime prudenziali, gli stessi Paesi del Sud perdono ogni anno una cifra compresa tra i 500 e gli 800 miliardi di dollari a causa della fuga di capitali. La maggior parte di queste risorse finisce nei forzieri delle banche occidentali o in qualche paradiso fiscale. La comunità internazionale ha iniziato a riconoscere l’impatto dei flussi finanziari illeciti sullo sviluppo dei Paesi più poveri, puntando l’indice contro la corruzione e la grande criminalità. Si tratta sicuramente di sforzi encomiabili, ma occorre ricordare che secondo diversi studi la corruzione non costituisce che il 3% dell’insieme dei flussi finanziari illeciti. Una percentuale tra il 30 e il 35% è rappresentato dalle attività criminali, a partire dai traffici di droga e armi, mentre quasi i due terzi dei capitali illegali è legata alla componente commerciale. La percentuale più importante di quest’ultima è quella dovuta all’abuso della pratica del transfer pricing di cui parliamo nel pezzo accanto. Secono l’ong inglese Christian Aid, la “pianificazione fiscale” delle multinazionali ha prodotto la bellezza di 160 miliardi di dollari di mancate entrate per i Paesi in via di sviluppo. “Soldi che basterebbero a salvare la vita a mille bambini al giorno”, enfatizza l’organizzazione, che a maggio ha pubblicato il rapporto Death and taxes: the true toll of tax dodging (Morte e tasse: il vero costo dell’elusione fiscale, in alto la copertina, è scaricabile da www.christianaid.org.uk). “Non ci sono giustificazioni morali -vi si legge- per i mille escamotage che le multinazionali trovano per non pagare il dovuto, mettendo il profitto davanti alla buona cittadinanza e alla responsabilità sociale”. L’ong punta anche il dito contro le grandi società di servizi (Kpmg, Pricewaterhouse&Cooper, Deloitte, Ernst&Young), che studiano queste pianificazioni in cambio di compensi che arrivano anche a 1.000 sterline l’ora.
 

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