Ambiente / Inchiesta
Un mondo di conflitti per l’acqua
Dalla Siria assetata per la siccità alla contesa sui grandi fiumi. L’unica soluzione possibile è la cooperazione
“La condivisione dell’acqua è una questione che presenta le potenzialità per innescare future tensioni geopolitiche internazionali e conflitti”. Giorgio Cancelliere è il coordinatore del master in Gestione delle risorse idriche nella cooperazione internazionale presso il dipartimento di Scienze geologiche dell’Università Bicocca di Milano. “In realtà -precisa- non è l’acqua che manca, ma le condizioni che permettono a gran parte della popolazione mondiale di accedervi, sebbene potrebbero essere attuate attraverso una maggiore cooperazione sulle risorse idriche, a tutti i livelli”. Dal 1950 sono 37 i conflitti scoppiati nel mondo per l’utilizzo dell’acqua, su un totale di 507 controversie. Dati che se comparati agli oltre 200 trattati firmati per la gestione delle risorse idriche transfrontaliere, che hanno dato vita a 1.228 accordi cooperativi, fanno pensare alla prevalenza del modello cooperativo nella gestione idrica tra Stati. Tuttavia, fattori come i cambiamenti climatici, l’aumento della popolazione, sistemi idraulici obsoleti (che aumentano gli sprechi) limiteranno in maniera crescente la disponibilità della risorsa.
La guerra in Siria è emblematica di come carenze idriche possano condurre a migrazioni e conflitti: “Già all’inizio degli anni 2000 i cambiamenti climatici nel Mediterraneo hanno avuto un forte impatto sulla Siria, dove la scarsità di acqua ha raggiunto l’apice tra il 2010 e il 2011 -spiega Cancelliere-. Negli anni, a causa della siccità, nel la minoranza alawita, vicina al presidente siriano Bashar al-Assad, si è spostata verso le zone costiere, popolate perlopiù dalla maggioranza sunnita, avversa al capo di Stato di fede alawita. La convivenza tra i due gruppi è ‘saltata’ di fronte alla contesa per le poche terre fertili rimaste”. È per questo che, secondo Cancelliere, che ha lavorato come esperto in 20 Paesi per numerose agenzie ONU, Ue e Ministero degli Esteri, “le popolazioni fuggite dalla guerra in Siria difficilmente vi faranno ritorno, anche qualora dovesse finire la guerra. Dopo quattro anni di siccità che hanno devastato suoli e falde acquifere, la terra siriana si è progressivamente desertificata. Considerando che molti profughi sono contadini, è difficile pensare che rientrino dove i terreni sono sempre più improduttivi per la mancanza di acqua. Tutto questo renderà ancor più complesso il ripristino di una situazione si sviluppo in Siria”.
“È difficile dire che cosa accadrà in futuro nel Paese -continua il docente-: la scarsità idrica è tale che si stanno mettendo in campo progetti per riattivare antichi pozzi di acqua, come quello a 40 chilometri da Damasco, mentre nella capitale si lavora a un impianto di trattamento delle acque reflue, strappato all’Isis, che lo aveva occupato, ma oggi fortemente danneggiato. Si tratta tuttavia di soluzioni che non sono di larga scala, in un Stato devastato da scontri e bombardamenti. A mio avviso, il futuro della Siria dipenderà anche dalla Turchia, che sulla base degli accordi internazionali vigenti deve rilasciare una determinata quantità d’acqua ogni giorno a favore dei siriani. Non sappiamo, tuttavia, se Ankara rispetterà gli accordi in futuro…”.
La crisi idrica sirana non è un caso unico in Medio Oriente, dove negli ultimi 50 anni i conflitti per l’acqua sono stati 32, trenta dei quali hanno coinvolto Israele e gli Stati arabi vicini per la gestione delle acque del Giordano e dei suoi affluenti, che forniscono milioni a persone l’acqua per la sussistenza vitale (abbeverarsi, servizi igienici e attività agricole). Un’altra situazione esplosiva è quella tra Egitto, Sudan ed Etiopia. Addis Abeba progetta un sistema di 4 grandi dighe sul Nilo, alcune già concluse, per la produzione di energia elettrica e contrastare la siccità nei territori etiopi. Tra queste c’è la Grand Ethiopian Reinassance Dam: l’opera minacciava di catturare il 30% delle acque del Nilo, causando problemi a valle a Egitto e Sudan. Nel 2014, le relazioni tra il Cairo e Khartoum da una parte, e Addis Abeba dell’altra arrivarono a duri confronti diplomatici, ma nel 2015 è stato raggiunto un accordo di cooperazione sulla gestione delle acque del fiume, che per regge.
Secondo il Water Resource Institute (WRI) la fascia della Terra ad “alto rischio” comprende l’Africa settentrionale e sub-sahariana (già colpita da molteplici instabilità), l’intero Medio Oriente e gran parte dell’Asia centrale e meridionale. Nei prossimi decenni una crescente penuria d’acqua riguaderà tutti i continenti, incluse porzioni di aree “ricche”, come la California, l’Italia del Sud, Spagna e Grecia, seppur a livelli tollerabili. L’ICCP (Intergovernmental Panel on Climate Change), il gruppo di lavoro intragovernativo sui cambiamenti climatici, prevede che nell’Europa del Sud le precipitazioni caleranno dell’80% entro il 2070, con fenomeni di siccità marcata. Le persone colpite dalla scarsità d’acqua passeranno dagli attuali 28 a 44 milioni, inclusa la popolazione di alcune aree dell’Europa centrale.
A causa delle deviazioni di grandi fiumi e gestioni monopolistiche, le tensioni su problemi idrici potrebbero riguardare anche Sudafrica e Messico. In Asia centrale, l’Afghanistan subirà le conseguenze di una maggiore scarsità d’acqua, così come il Kazakhstan.
Già oggi 783 milioni di persone nel mondo non hanno accesso all’acqua potabile, e 2,5 miliardi non ne hanno disponibilità per bisogni igienico-sanitari. Si calcola inoltre che tra i 6 e gli 8 milioni di persone ogni anno muoiano per malattie e disastri ambientali connessi all’acqua. Considerando poi che la popolazione mondiale aumenterà di 2 o 3 miliardi nei prossimi 40 anni, raggiungendo i 9 miliardi nel 2050, si prevede una crescita del 70% della richiesta di cibo, la cui produzione è strettamente collegata all’acqua. Attualmente il 70% dell’acqua utilizzata dall’umanità viene infatti impiegata per l’agricoltura. A crescere nei prossimi decenni sarà anche la domanda di energia connessa a fonti idriche. Questioni interconnesse che porteranno a un aggravamento della competizione sull’utilizzo delle risorse idriche tra i vari settori.
Considerando che il 46% della superficie terrestre del globo è ricoperta da bacini fluviali che attraversano confini di Stati diversi, la cooperazione sull’acqua è una via obbligata: sono 276 i bacini fluviali transnazionali nel mondo, e di questi 185 sono condivisi da almeno due Paesi. Nel caso di Congo, Niger, Nilo, Reno e Zambesi, i bacini sono divisi tra i 9 e 11 Paesi, che ne sono dipendenti. In totale sono 145 le nazioni i cui territori includono porzioni di bacini internazionali: in Europa il fiume Danubio attraversa 18 Stati europei, e il diritto alla libera navigazione delle acque danubiane è stato causa di tensioni intra-Stati. L’ultimo nel 1992, quando l’enorme complesso idroelettrico Gabcikovo-Nagymaros esasperò i rapporti tra Ungheria e l’allora Cecoslovacchia. Accordi tra Cina, Cambogia, Laos, Thailandia e Vietnam regolano invece l’utilizzo delle acque del fiume Mekong, sul quale si sta giocando una “guerre delle dighe”. Pechino possiede già cinque sbarramenti sul Mekong, ma il Laos ha in cantiere 10 impianti idroelettrici. La costruzione di alcune dighe cinesi sul Mekong ha causato secche e inondazioni che hanno determinato una riduzione della pesca in Cambogia e della produzione di riso in Thailandia, colpendo anche 17 milioni di vietnamiti che vivono sul delta del fiume. Solo recentemente la Cina si è presentata al tavolo delle trattative per la gestione del fiume Mekong, di cui utilizza un quinto delle acque, sebbene ne detenga solo il 2%, dalle cui acque dipende il 47% della popolazione del Laos e il 90% della Cambogia. Più in generale, le acque provenienti dall’altopiano del Tibet (come il Mekong), che provvedono al fabbisogno idrico del 47% della popolazione mondiale e dell’85% di quella asiatica, sono minacciate dalle decisioni di Cina e India in materia di produzione agricola ed elettrica.
In Asia a soffrire per l’acqua c’è anche il Pakistan, che negli ultimi anni ha subito le peggiori alluvioni del mondo, con migliaia di vittime. Disastri causati anche dalla gestione dei bacini presenti “a monte”, ovvero in India. Tra il 1960 e il 1970 il governo di New Delhi ha costruito un sistema di dighe con cui controlla gran parte delle acque del Gange, del Bramaputra e del Mengha. Un monopolio che crea tensioni con Islamabad, ma non solo: la gestione indiana delle acque, unitamente all’innalzamento del livello del mare per effetto dei cambiamenti climatici, rischia di portare il Bangladesh a perdere il 25% delle terre coltivabili, con ricadute sulla sicurezza alimentare della popolazione.
Tra gli strumenti internazionali usati per dirimere le controversie sull’acqua c’è la Convenzione delle Nazioni Unite sull’uso dei corsi d’acqua non legati alla navigazione, del 1997. Nel luglio del 2010, grazie alla mobilitazione dei movimenti per l’acqua, l’ONU ha approvato una risoluzione che riconosce il diritto all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari come diritto umano universale, autonomo e specifico, essenziale per il riconsocimento del diritto alla vita e a tutti gli altri diritti. “Finora sono 40 i Paesi che, con modalità e definizioni differenziate, hanno riconosciuto nelle legislazioni nazionali il diritto umano all’acqua o l’acqua come ‘bene comune’, ma solo a livello declaratorio -spiega ad Altreconomia Rosario Lembo, presidente del Comitato italiano per un contratto mondiale sull’acqua (CICMA)-. A tutt’oggi il diritto a un minimo vitale di acqua pulita non è garantito in nessun Paese del mondo. Nel frattempo l’acqua è diventata una risorsa sempre più rara e inquinata e aumentano i conflitti intorno all’accesso per uso umano e agli usi produttivi ”.
“Le imprese multinazionali sono riuscite a convincere un buon numero di Stati a escludere ogni riferimento al diritto umano all’acqua dalla nuova Agenda ONU degli Obiettivi di sviluppo sostenibili, da raggiungere entro il 2030. Si parla di accesso all’acqua attraverso un prezzo equo di mercato. Un atto grave -spiega Lembo-, che diventa ancor più pericoloso per i vincoli che trattati come il TTIP tra Europa e Stati Uniti, o altri accordi di liberalizzazione dei servizi pubblici locali, in fase di negoziato, potrebbero introdurre”.
“Le convenzioni internazionali sull’uso delle risorse o la stessa risoluzione ONU sul diritto umano all’acqua, sono strumenti di ‘soft-law’ -conclude Lembo-: non sono, cioè, vincolanti e non tutelano i diritti delle comunità locali”.
Per scongiurare il rischio che siano imprese e mercati a decidere le modalità con cui gli Stati possono garantire il diritto umano all’acqua, Lembo segnala che il CICMA, con il supporto di un gruppo di docenti dell’Università Bicocca, ha redatto la proposta di un “Secondo protocollo opzionale al patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali”, cioè uno strumento di diritto internazionale idoneo a far rispettare i principi e gli oblighi sanciti dalla risoluzione dell’ONU. Il Protocollo, se ratificato dagli Stati, stabilisce e codifica le modalità con cui il diritto umano all’acqua, associato alla nutrizione e ai servizi igienici, deve essere garantito in maniera vincolante, e può quindi garantire l’universalità del diritto all’acqua vincolando le legislazioni nazionali. Il Protocollo introduce inoltre vincoli a tutela e salvaguardia delle risorse idriche (contrasto a water e land grabbing, al fracking, allo spreco, all’inquinamento) e propone l’adozione di un Fondo internazionale di solidarietà per garantire il diritto al minimo vitale (50 litri al secondo) nei Paesi più poveri. A sostegno della proposta è stata lanciata la campagna www.waterhumanrighttreaty.org. Secondo Giorgio Cancelliere, tuttavia, “quello che manca a livello mondiale è un’Authority dell’Acqua, che potrebbe configurarsi seguendo il modello di un’Agenzia dell’ONU pari alla FAO, che si occupa del cibo, e all’OMS, che si occupa di Sanità. Oggi la tutela dell’ONU in materia di acqua si divide infatti tra UNICEF e UNESCO, e non è affatto sufficiente. Ritengo, inoltre, urgente regolamentare la produzione di bio-combustibili, perché il diritto all’utilizzo di acqua a fini di sussistenza deve prevalere su quello di produzione di energia”.
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