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Esteri

Tra coltura e cultura

Nell’altopiano andino minacciato dai cambiamenti climatici, si garantisce sicurezza alimentare con le produzioni e i metodi tradizionali —

Tratto da Altreconomia 144 — Dicembre 2012

A Potosì, nell’altopiano andino della Bolivia meridionale, c’è chi cerca sottoterra e chi guarda il cielo. L’oro, l’argento e lo stagno che stanno (e che stavano) sotto i piedi delle comunità sono stati il motore di un’economia mineraria che ha spremuto come un limone una delle comunità più alte del mondo, inchiodata a quasi 4.100 metri sul livello del mare, e che l’ha lasciata giusto con la buccia. Oggi nel dipartimento di Potosì si contano alcuni tra i municipi più poveri del Paese e dell’intera America latina. Ma Victoriano Chambi Ambrocio, per gli amici solamente Victoriano, decise di guardare il cielo.
Le nubi, il colore dei tramonti, l’andamento dei venti sono stati per decenni gli strumenti necessari per capire quando piantare le patate, e come curarle a partire dall’insegnamento di suo padre.
Victoriano è nato 63 primavere fa nella comunità quechua Karujo all’interno dell’Ayllu Aymayo, un’unità sociale e politica andina legata alle etnie quechua ed aymara che deriva addirittura dalla civiltà inca. Ha cominciato a piantare patate fin da bambino, non più di cinque o sei varietà, ma che con il tempo si sono ampliate, diversificate, grazie anche al lavoro di Victoriano che da semplice coltivatore si è trasformato, volente o nolente, in un custode di biodiversità.
Sette ettari coltivati grazie all’impegno di quattro famiglie della comunità, un lavoro che ha fatto incontrare contadini di zone diverse del dipartimento e di parte della Bolivia e che ha permesso uno scambio di saperi e di patate, perché nelle zone ancora tutelate dall’agricoltura industriale culture e colture sono parte della stessa ricchezza.
Victoriano, a suon di acquistare patate al prezzo di 5 bolivianos l’una (poco meno di 50 centesimi di euro) ne ha raccolte più di 87 varietà diverse, tutte coltivate senza l’utilizzo di sostanze chimiche e secondo le usanze degli antenati. Una piccola parte delle oltre 230 varietà esistenti in tutta la Bolivia e che rappresentano non solo una ricchezza culturale, ma uno dei migliori antidoti al cambiamento climatico che negli ultimi anni si è fatto sempre più evidente.
La Bolivia è uno dei Paesi a più alto grado di biodiversità al mondo  e per questo viene definito “megadiverso”. Dal 1998 fa parte del Like-Minded Megadiverse Countries (Lmmc) un gruppo di affinità molto attivo che comprende 17 Paesi che, da soli, pur rappresentando meno del 10% della superficie mondiale assommano più del 70% di tutta la diversità biologica del pianeta. Allo stesso tavolo del Paese andino siedono delegazioni di diversi altri Paesi come la Cina, la Colombia, l’Ecuador, il Kenya, le Filippine e il Sudafrica.
Nella sola Bolivia sono rappresentate 2.902 specie di vertebrati, distribuite tra 398 specie di mammiferi, 277 specie di rettili, 635 specie di pesci, 204 specie di anfibi e 1.398 specie di uccelli. Ed oltre 20mila specie di piante “superiori”. Una variabilità enorme, nata grazie alla continua interazione tra genoma ed ambiente, ma che negli ultimi tempi ha cominciato a segnare il passo.
La velocità con cui le condizioni atmosferiche variano, come conseguenza del cambiamento climatico, stanno mettendo a dura prova gli equilibri naturali che hanno permesso di accumulare così tanta ricchezza.
“Il cambiamento climatico sta mettendo in pericolo l’esistenza stessa della produzione di patata della zona” racconta José Luis Quiruchi dell’ong Cad, Centro de apoyo al desarrollo, nel seminario internazionale sulla biodiversità organizzato dalla campagna Sblocchiamoli (www.sblocchiamoli.org) a fine ottobre a Oruro, in Bolivia.
“Si sono spostate le semine, zone destinate alla pastorizia si stanno trasformando in aree seminate mentre in altre zone non cresce più nulla. Ci troviamo a dover contrastare addirittura l’arrivo di nuove specie di insetti”.
La Bolivia, con i suoi ambienti estremi, è una delle principali vittime del cambiamento climatico. Lo sapeva bene Pablo Solon, l’ambasciatore boliviano all’Onu quando, alla Conferenza delle Parti di Cancun nel 2010, sottolineò con forza che accettare 2° C di aumento medio significava sottoscrivere una tragedia planetaria. Oggi Solon è presidente della fondazione omonima e direttore esecutivo di Focus on the Global South (focusweb.org/content/who-we-are) una delle principali organizzazioni attive sul tema. Le cose cambiano, ma le politiche sul clima rimangono al palo, anche in vista della Conferenza di Doha sul clima.

Ma se il mondo non si muove, ci provano almeno i contadini ed i governi del Sud del mondo. Nel maggio del 2012 il presidente boliviano Evo Morales decise di bloccare per tre mesi l’importazione di patate, sia dal vicino Perù sia, in particolar modo, dagli Stati Uniti e dall’Olanda.
“La patata boliviana basterà a soddisfare la richiesta del mercato interno” hanno spiegato la ministra allo Sviluppo produttivo Teresa Morales, e quella dello Sviluppo rurale, Nemesia Achacollo.
Un segnale in netta controtendenza con le scelte compiute da alcuni, ingombranti, vicini come la Colombia: il Trattato di libero scambio con gli Stati Uniti entrato in vigore il 15 maggio scorso potrebbe, per diverse reti ed organizzazioni della società civile, impattare pesantemente sulla vita dei tre milioni di contadini colombiani che da soli producono il 40% del cibo consumato nel Paese.
Le previsioni non sono esaltanti: a causa dell’aumento delle importazioni di cibo, il reddito dei due terzi dei piccoli produttori colombiani potrebbe crollare del 16%, mentre i contadini poveri tra i più poveri potrebbero perdere dal 40 al 70% delle loro entrate. Un precedente rischioso, che dovrebbe far riflettere sugli impatti reali che la liberalizzazione del commercio ha sulla popolazione e sull’ambiente.
Il tutto si può riassumere quasi con un mantra: mercato locale contro mercati globali. —

Contro i brevetti
Lo scorso 30 e 31 ottobre si è svolto a Oruro, in Bolivia, il seminario “Conocimiento, salud, alimentacion para todos”, incentrato sulla protezione della biodiversità e l’opposizione alla brevettazione del vivente e promosso dalla campagna italiana Sblocchiamoli in collaborazione con diverse organizzazioni dell’agricoltura ecologica come Aopeb (Asociación de organizaciones de productores ecológicos de Bolivia) o con istituti governativi come Iniaf (Instituto nacional de innovación agropecuaria y forestal). Sblocchiamoli è una campagna di educazione allo sviluppo co-finanziata dalla Commissione Europea e realizzata da ong e associazioni di Italia, Spagna, Bolivia, India ed Ecuador. L’iniziativa ha l’obiettivo di mobilitare le istituzioni e i decision makers dei Paesi coinvolti a favore di una positiva e sostenibile applicazione dei Diritti di proprietà intellettuale (Dpi) nei processi di sviluppo dei Paesi del Sud del mondo.
 

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