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Servono politiche industriali per uscire dal pantano della crisi

Nemmeno la partnership con Etihad, in assenza di una seria politica industriale, salva Alitalia: l'ex compagnia di bandiera è ancora in crisi

Dai maquillage senza successo di Alitalia ai rischi di Fiat, ora FCA, che dopo aver abbandonato i lidi tranquilli di Torino e del sostegno pubblico è chiamata a confrontarsi con il mercato e le regole USA: ecco perché senza una strategia, e di fronte alle regole europee che rendono difficile l’intervento pubblico nell’economia un nuovo “miracolo italiano” appare difficile

È certamente difficile, oggi, fare politiche industriali. Si potrebbe arrivare a sostenere che le politiche industriali sono finite con il tramonto del Novecento e con la scomparsa dei grandi attori istituzionali del processo economico. In particolare, sono state messe in difficoltà dall’indebolimento dello Stato, sottoposto ai vincoli del mercato e dell’Europa, e dal progressivo infittirsi delle tante normative a difesa della concorrenza, che hanno finito per estendere oltremisura il divieto degli incentivi e dell’intervento pubblico; un indebolimento aggravato dalla finanziarizzazione dell’economia, responsabile del predominio della carta sulla produzione che genera avvertibili effetti sociali, e dai molteplici aspetti della globalizzazione, destinati a condannare qualsiasi paese impegnato nel tentativo di mantenere una propria autonomia in campo economico.

Le politiche industriali sono state rese assai più complicate, in Europa, dall’adozione di una moneta unica che risulta spesso disallineata rispetto alla reale forza delle singole realtà nazionali. Sembrerebbe dunque quasi inutile tornare a parlare di politiche industriali, al di là di formule assai fumose e fin troppo sloganistiche come quella di “industria 4.0”. In realtà, pur avendo ben chiare le mille difficoltà accennate, continua ad apparire indispensabile, per la tenuta di un Paese, l’esistenza di una strategia che leghi il sistema bancario con il mondo produttivo, e in cui abbiano un ruolo centrale alcuni grandi punti di riferimento, a loro volta inseriti in un più complessivo quadro infrastrutturale funzionante ed efficace.
Il miracolo economico italiano si è fondato sullo sviluppo formidabile di alcuni “campioni nazionali”, di cui Fiat era un fortunato esempio, su un sistema bancario in grado di accompagnare e sostenere l’autofinanziamento delle imprese e su una rete di trasporti di cui la compagnia aerea nazionale, l’Alitalia, era uno dei simboli più ammirati.
Si è fondato soprattutto però su politiche industriali, dal piano Vanoni (1954) alla Nota di Ugo La Malfa (1962), che hanno saputo indirizzare e legare insieme i diversi ambiti dello sviluppo. Di quelle condizioni ora sembra essere rimasto ben poco: le banche italiane sono afflitte da un pesante complesso di sofferenze e di crediti difficilmente esigibili, in buona parte dipendente da scelte di fidi non sempre credibili e da operazioni finanziarie decisamente azzardate.
I grandi colossi della siderurgia, della chimica e della meccanica hanno subito i colpi durissimi della globalizzazione e hanno pagato strategie quantomeno discutibili. Fiat ha deciso di salvarsi dalla crisi lasciando l’Italia, trasformandosi in FCA e scommettendo sul mercato americano.

Proprio questa soluzione pare oggi condurla ai confini di un territorio molto insidioso. Le accuse dell’Epa, l’agenzia statunitense delegata alla protezione ambientale, che rischiano di produrre una multa salatissima con inevitabili conseguenze borsistiche, sono in qualche modo legate alla scelta di entrare in un mercato molto complicato e spinoso come quello a stelle e strisce, dove la politica ha un ruolo tutt’altro che irrilevante. Non è un caso forse che l’indagine dell’Epa sia esplosa quando la Fca di Marchionne ha dimostrato grande zelo rispetto alle richieste, o meglio alle pretese, avanzate da Donald Trump di non delocalizzare stabilimenti al di fuori degli Stati Uniti. La promessa di Marchionne di investire negli Usa e di creare nuovi posti di lavoro per le tute blu americane è probabile che non sia piaciuta al presidente scaduto, Barack Obama, impegnato negli ultimi mesi a condurre una dura campagna ambientalista in funzione anti-Trump. Si tratta di una mera ipotesi, ma è fuori di dubbio che la scelta del trasferimento americano di Fiat, e il definitivo superamento della dimensione italiana, abbiano posto l’ex azienda di Torino in un mare procelloso assai difficile da gestire per chi era abituato non tanto a politiche industriali quanto ad aiuti fin troppo mirati.
Alitalia è da tempo un malato grave che si trascina in vita senza reali piani industriali, e coltiva poco credibili operazioni di maquillage in genere limitate alla scelta dei vertici. In estrema sintesi, molti degli elementi del miracolo economico italiano sono spariti e si fatica, davvero, a credere che ciò sia dipeso solo dalla pur fondamentale colpevolezza dei vari vertici aziendali, come sembra invece emergere dalle autorevoli dichiarazioni delle ultime settimane.

Sarebbe più opportuno, al contrario, chiamare in causa il già citato abbandono delle politiche industriali che pare avere contraddistinto la storia recente del nostro Paese. Sul versante bancario, dopo il varo del Testo unico del 1993, si è avviata una privatizzazione che ha avuto i caratteri della apertura alla turbo finanza, e ha innescato pericolosi e costosi tentativi di scalata. Sul piano industriale si sono salutate con favore le delocalizzazioni, a cominciare proprio da quella di Fiat (qui il reportage di Altreconomia dallo stabilimento di Kragujevac, in Serbia), interpretate come l’unico modo per salvare le geografie produttive nazionali. Troppo spesso, poi, queste soluzioni sono state adottate con l’unica motivazione del rispetto delle regole europee e di quelle della globalizzazione, che non avrebbero consentito strade alternative dati i vincoli imposti sull’indebitamento, sulla moneta e sugli incentivi pubblici.

In realtà è stata proprio la rinuncia alle politiche industriali, intese non tanto nei termini dell’intervento diretto dello Stato, quanto in quelli della regia pubblica in vari aspetti del processo economico, che ha contribuito a determinare una costruzione del mercato e dell’Europa dove si sarebbero inevitabilmente ristretti gli spazi dello sviluppo. Procedere inseguendo le difficoltà e richiamando gli insuperabili vincoli europei, costruiti proprio da scelte politiche remissive, non consente e non consentirà più alcun miracolo.

* Alessandro Volpi, Università di Pisa

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