Ambiente
Se a Tuvalu non piove…
Il cambiamento climatico non è diverso da una "lenta ed insidiosa forma di terrorismo". Meglio di chiunque altro, Saufatu Sapo’aga, ex Primo Ministro degli atolli di Tuvalu, riuscì in un memorabile discorso a sottolineare cosa può significare per un Paese…
Il cambiamento climatico non è diverso da una "lenta ed insidiosa forma di terrorismo". Meglio di chiunque altro, Saufatu Sapo’aga, ex Primo Ministro degli atolli di Tuvalu, riuscì in un memorabile discorso a sottolineare cosa può significare per un Paese un mutamento epocale come quello che stiamo vivendo. Soprattutto se stiamo parlando di un Paese le cui dimensioni, sulla mappa geografica, sono a prova di miope.
Tuvalu è una nazione insulare formata da otto isole incastonate in mezzo al Pacifico, per un totale di 26 chilometri quadrati e spicci. Il posto più in alto assomma a 5 metri sul livello del mare, mentre la media delle terre emerse rimanenti non supera il metro sopra la superficie dell’Oceano. Un Oceano che cresce millimetro per millimetro, anno dopo anno. E che viene controllato con difficoltà dalle varie barriere improvvisate che gli abitanti cercano disperatamente di costruire per salvare le poche coltivazioni, ed abitazioni, presenti. Ma il problema dell’oggi non è, ancora, la sommersione delle terre, ma l’inquinamento delle falde di acqua potabile che si trovano poco sotto gli atolli. Già ampiamente sfruttate, ed in alcuni casi inquinate, rischiano di scomparire tra un’acqua salata che sale ed una pioggia che non arriva, soprattutto se in mezzo ci si mette anche La Nina, quel fenomeno atmosferico caratteristico dell’area del Pacifico che ciclicamente sconvolge i regimi delle piogge e delle siccità in quell’area del mondo. Ed a Tuvalu, di pioggia, non se ne vede da circa un anno. E questo vuol dire razionare l’acqua, non poter irrigare, non potersi e non poter lavare come si vorrebbe, con tutto quello che ciò comporta. L’ospedale locale ha già affrontato, e per ora sconfitto, un’epidemia di gastroenterite il mese scorso ma i medici sono pronti a tutto. In un’intervista al quotidiano britannico Guardian la dottoressa Puakena Boreham è diretta: "al momento non siamo in una situazione critica per la salute pubblica, ma le cose potrebbero peggiorare".
I diecimila abitanti di Tuvalu sono nei fatti prigionieri nelle loro terre. Molti vorrebbero andarsene, ma mancano i soldi. Altri si ostinano a rimanere, perchè lasciare Tuvalu non vuol dire solamente lasciare la propria casa, ma anche le proprie tradizioni e, nel momento in cui il Pacifico inghiottirà l’ultimo metro calpestabile, il proprio status guiridico. Poche decine d’anni ed avremo i primi profughi apolidi che la storia dell’umanità abbia mai conosciuto: raminghi per il mondo non perchè fuggiti ad un conflitto o ad un’occupazione militare, non perchè scacciati dalle proprie terre, ma perchè quelle terre, in senso fisico, non esisteranno più.
Un bel problema. Anche per le Nazioni Unite e per il diritto internazionale. Ma chi oggi abita a Tuvalu non si scompone davanti ai cavilli giuridici, chiede solo di poter sopravvivere. Lo fece Ian Fry, allora delegato alla Conferenza delle Parti di Copenhagen nel 2009, tra un singhiozzo e l’altro, dimostrando come dietro ai grandi summit ci siano in verità decisioni (o non decisioni) che condannano persone in carne ed ossa, con le loro storie e le loro fragilità.
"Crediamo che questa (l’attuale crisi idrica, NdA) sia nei fatti la concretizzazione del cambiamento climatico" ha dichiarato Pusinelli Laafai, presidente del National Disaster Committee di Tuvalu in un recente incontro con la stampa, "pensiamo che (i Paesi industrializzati) abbiano il dovere di aiutarci, se non nel recuperare quello che è stato danneggiato o si è perso, almeno nell’assisterci in qualche modo, per mitigare gli effetti di ciò che hanno fatto".
Avevano promesso 30 miliardi di dollari entro il 2012 e di mobilizzarne almeno 100 entro il 2020. Il G20 di Cannes, ad un mese dalla Conferenza Onu sul cambiamento climatico di Durban, deciderà su quali azioni intraprendere per contrastare il gorgo dei debiti sovrani. E come ricapitalizzare le banche. Perchè le Grandi istituzioni, sia che siano pubbliche che private, sono "too big to fail". Ma niente di più. E se in default va l’intero ecosistema, insomma, pazienza. Qualcun altro pagherà.