Esteri / Reportage
Ritorno in Kosovo
Viaggio attraverso l’ex provincia serba, sedici anni dopo i bombardamenti Nato, tra tensioni mai sopite e nuove opportunità. In una regione grande all’incirca quanto l’Abruzzo ci sono 6mila soldati di undici nazioni diverse; circa 300 enclavi serbe, una capitale a prevalenza albanese e una città, Mitrovica, divisa in due da un ponte
“Ciao, piacere, mi chiamo Alex, sono italiano. E tu?”. “Io sono serbo”. Basta questo per capire il Kosovo. Milan, 8 anni e due occhi azzurri lucenti, è nato nella terra che la guida Lonely Planet definisce la nazione più “nuova” d’Europa ma che pochi ricordano dopo i bombardamenti del 1999, 16 anni fa.
Il resto del mondo era distratto dalla nascita dell’euro e dallo scandalo che aveva coinvolto il presidente degli Stati Uniti d’America Bill Clinton e Monica Lewinsky, mentre a un’ora e mezza d’aereo dall’Italia il governo di Belgrado invadeva la provincia del Kosovo, aprendo una nuova politica di pulizia etnica contro la maggioranza albanese che fuggì in Albania.
Quattro giorni dopo la premiazione agli Oscar de “La vita è bella” di Roberto Benigni, da Aviano e dalle altre basi Nato italiane, il 24 marzo 1999, prendevano il volo i caccia bombardieri contro l’esercito serbo. Una tragedia che lasciò sul campo un numero di vittime di entrambe le parti, sia militari sia civili, ancora oggi indefinito.
Milan non ha conosciuto la guerra che nel 1999 ha ferito per sempre il suo villaggio, l’enclave di Velika Hoca. Lui non si sente kosovaro; non sa nemmeno che l’indipendenza dalla Serbia, autoproclamata dal Kosovo l’11 febbraio del 2008, è riconosciuta da 111 Stati membri dell’Onu su 193, ma ogni giorno vede arrivare davanti alla sua scuola i militari della missione internazionale Eulex che parlano una lingua a lui sconosciuta.
Milan, ogni volta che attraversa il villaggio per arrivare fino all’ingresso del Paese legge nomi familiari sull’unico monumento al traffico d’organi che esiste in Europa.
Il mio piccolo interlocutore e amico vive in una terra dove ci sono, ancora oggi, tre targhe diverse, dove sventolano tre bandiere: quella serba, quella rossa dell’Albania e quella blu del Kosovo.
In una regione grande all’incirca quanto l’Abruzzo ci sono 6mila soldati di undici nazioni diverse; circa 300 enclavi serbe, una capitale a prevalenza albanese e una città, Mitrovica, divisa in due da un ponte. A Nord i serbi, a Sud gli albanesi. Un Paese sempre con il fiato sospeso dopo l’accordo firmato a Bruxelles, il 25 agosto scorso, dal premier serbo Aleksander Vucic e il Primo ministro dell’autogoverno kosovaro, Isa Mustafa, sotto la mediazione dell’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica Mogherini.
Grazie a questa intesa è nata l’Associazione delle municipalità serbe del Kosovo che garantirà una maggiore autonomia giudiziale, la rimozione dei blocchi sul ponte di Mitrovica e un nuovo prefisso telefonico per il Kosovo. L’accordo raggiunto consegna alla Comunità dei comuni serbi una vera e propria autonomia nei campi dello sviluppo locale, dell’istruzione e della sanità; inoltre, permetterà la costituzione di un “panel” di giudici a maggioranza serba nell’ambito della Corte d’appello di Pristina, per trattare le questioni giudiziarie relative alle municipalità serbe.
Una firma che ha avuto letture contrastanti. Luca Zanoni, direttore dell’Osservatorio sui Balcani, ha analizzato così la questione: “Ci sono interpretazioni differenti ma è stato salutato con favore da Bruxelles. Il Kosovo in questo modo esce ufficialmente dall’agenda della politica interna della Serbia. Alla maggior parte dell’opinione pubblica serba quella terra non interessa più, perché sanno che il Kosovo è stato perso con la guerra del 1999. Vucic si giocherà questa carta nell’ottica dell’avvicinamento all’Europa. Il Kosovo resta un luogo che va regolarizzato, non risolve i suoi problemi con l’indipendenza”.
E se il sindaco di Mitrovica Nord, Goran Rakic, ha dichiarato che questo accordo garantisce condizioni migliori per la vita dei serbi in Kosovo, dall’altro canto il primo ministro kosovaro Isa Mustafa ha dichiarato che “l’associazione non avrà alcun potere esecutivo”.
Intanto, Milan, la prima e unica volta che ha messo piede a Prizren, città a maggioranza albanese dove vivono ancora solo 17 serbi, è stato grazie all’iniziativa della fotografa Monika Bulaj che ha insegnato ai bambini di Velika Hoca a usare la macchina fotografica e ad andare sui trampoli: a Prizren, hanno fatto uno spettacolo scortati dalle forze internazionali. Un’andata e ritorno dall’enclave senza la speranza di tornare presto per le strade della pittoresca città dove persino i bambini serbi sono guardati con disprezzo.
A sedici anni dalla fine dei bombardamenti Nato, non c’è pace. L’odio lo si respira per le strade, si legge nei monumenti che si incontrano in tutto il Paese. Bisogna guardare le scritte per strada, entrare nei cimiteri, andare nei monasteri per comprendere cosa sta accadendo ancora in questa terra martoriata. “Nessuno dei ragazzi di Velika Hoca -mi racconta padre Francesco del monastero di Decani, luogo che è testimonianza vivente della sanguinosa storia dei Balcani- pensa a una futura fidanzata albanese. Per loro è impossibile”. Inimmaginabile perché la loro vita è trascorsa a giocare in un campo di calcio dove nel 1999 sono stati fatti ritrovare parti dei corpi dei maschi di un’intera famiglia che era stata rapita per traffico d’organi. Quel monumento dedicato a tutti coloro che in quegli anni sono spariti nel nulla, non fa parte del passato, è ben presente.
Lisa Clark, storica pacifista, conosce bene la società civile di queste terre, ed è convinta che “le spinte dalla base, perlomeno nella parte kosovara albanese, ci sono sempre state per trovare una visione riconciliatrice”. Ma non basta: “Non so fino a che punto -aggiunge la Clark- questa volontà di pace possa avere la speranza di essere maggioritaria perché finora è sempre stata perdente. Nella parte serba, coloro che erano interessati ad una visione nuova, se ne sono andati a Belgrado o altrove. Il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo da parte di alcuni Stati della comunità internazionale ha ricaricato le armi in una fazione serba che si sente perennemente vittima. Dal punto di vista della propaganda politica dell’oltranzismo serbo, quel riconoscimento ha peggiorato la situazione. La verità è che oggi non se ne parla più di Kosovo, anche in Italia”.
A Mitrovica, a destare le coscienze, sono le tombe: al cimitero musulmano, all’uscita della città, sono coperte dall’erba ma ben tenute; qualche chilometro più in là, dall’altra parte, basta entrare nel campo santo degli ortodossi per vedere la devastazione, l’oltraggio. La tensione si respira ogni giorno. Il monastero di Decani, dove vive Francesco è sorvegliato ancora dai militari italiani. Si arriva solo passando tre check point.
I monumenti in Kosovo, non sono luoghi dove portare corone d’alloro, ma pietre vive. Lo scorso mese di luglio a Gorazdevac, un villaggio dove nel 2003 vennero uccisi senza una ragione due ragazzi di 19 e 13 anni, è tornato l’incubo di quei giorni: un auto con quattro persone a bordo è arrivata nell’enclave, lanciando una molotov contro il monumento realizzato alla memoria delle due vittime del 2003, e dei caduti per i bombardamenti del 1999. Sono scesi dall’auto, hanno macchiato con disegni osceni le abitazioni del paese e crivellato a colpi di kalashnikov le auto con targa serba.
La storia si ripete. A Mitrovica sembra non essere mai finita. È il posto più simile all’Irlanda del Nord. Ad accoglierci sono i nostri Carabinieri in assetto antisommossa. Per le strade solo bandiere rosse con l’aquila nera a due teste. Prima di superare la barricata che divide la zona albanese da quella serba, bisogna celare la targa. Superata la zona franca si entra in un altro territorio: le scritte sui negozi e sulle vie sono in cirillico. Impossibile pagare in euro, qui si usano solo dinari. Con l’aiuto di chi mi accompagna mi faccio tradurre le scritte sui muri: “Boicottate le elezioni”.
Eppure qualcuno ha tentato di far passare alla storia Mitrovica come città della pace: l’esercito italiano nel 2014 decise di togliere le barricate; in una notte le fece rimuovere e realizzò un parco, dedicato alla pace.
L’indomani venne inaugurato in pompa magna ma tutte le foto che riprendevano il giardino erano scatti da Nord verso Sud, nessuna al contrario. Non una sola immagine delle barricate rimaste sulla sponda serba. Quel ponte, sorvegliato giorno e notte dai Carabinieri, continua a dividere la città. Non è forse un caso che nell’accordo del 25 agosto sia entrata anche la gestione di questa parte di Mitrovica: la firma tra Pristina e Belgrado prevede l’apertura al libero passaggio pedonale del ponte.
Ad aver stretto alleanze in questo budello d’ Europa sono anche le mafie che gestiscono la prostituzione, e i trafficanti di droga che in nome degli affari non conoscono idioma ed etnia. “A Pristina -mi racconta un italiano che vive da anni in Kosovo- quando sono arrivato in hotel mi hanno chiesto a che piano volessi andare. Al primo c’erano le ragazze; al secondo gli spacciatori, al terzo i giornalisti”.
Le diplomazie internazionali parlano di un Paese in via di pacificazione, ma nei mesi scorsi Abu Muqatil, un ragazzo di Gnjilane (Kosovo e Metohija) in un video di pura propaganda, con la bandiera dell’Isis in mano, ha urlato parole d’odio: “Arriveranno giornate nere per tutti quelli che in Kosovo, in Albania, in Macedonia e in tutti i Balcani hanno disprezzato i musulmani”.
Chi vive nel ventre del Paese racconta di un campo d’addestramento a Urosevac. Dall’altro canto in ogni casa kosovara c’è un fucile: la guerra non è mai finita e solo nell’immaginario degli occidentali si può pensare che l’esercito albanese indipendente dell’Uck abbia riconsegnato le armi.
Protagonisti dello scenario kosovaro sono i monaci ortodossi del monastero di Decani. Padre Francesco, è un uomo intelligente e pratico. A Velika Hoca ha ristrutturato una vecchia cantina per farci la “Vinica”, un ristorante a base di prodotti locali dove lavorano i giovani del paese. Ogni agosto, sotto un tendone da circo, organizza “GiocaHoca”: per trenta giorni decine di volontari arrivano da ogni parte d’Europa per animare l’enclave.
Hanno anche coniato una moneta, l’Utro, basata sulla bellezza. “Abbiamo emesso un bond, cioè un credito; abbiamo dichiarato 15mila euro di Utro -spiega padre Francesco-, che vanno al cambio nominale di 1 a 20. Avremo tre tagli di monete: da uno, da due e da cinque. Apriremo tre asset: la piscina, il bike sharing, il negozio dei gelati e la Vinica. Una commissione presieduta dal vescovo e da tre persone del paese valuterà gli interventi meritevoli di Utro, che dovranno essere basati su un codice estetico: la ristrutturazione di una facciata, la pulizia di una strada. Vogliamo generare plus valore, solo la bellezza ci salverà”. —
Foto di Andrea Ferrari
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