Salute / Opinioni
Ricerca e sviluppo non giustificano il prezzo elevato dei nuovi farmaci

Il prezzo dei nuovi farmaci negli Stati Uniti è passato da una media di 1.400 dollari (terapia di un anno) nel 2008 ai 150mila nel 2021. Le aziende si sono sempre trincerate dietro la giustificazione dei costi elevati di ricerca e sviluppo. I dati, però, raccontano una realtà diversa. L’analisi di Giovanni Peronato
Il prezzo dei nuovi farmaci negli Stati Uniti è passato da una media di 1.400 dollari (terapia di un anno) nel 2008 ai 150mila nel 2021. Esistono anche esempi stratosferici come il Zolgensma per l’atrofia muscolare spinale, in vendita a due milioni di dollari per la singola dose, o farmaci più recenti per la terapia genica dell’emofilia B che arrivano a 3,5 milioni a dose. Le aziende del farmaco si sono sempre trincerate dietro la giustificazione dei costi elevati di ricerca e sviluppo (R&D).
Sui costi reali per lo sviluppo di un nuovo farmaco, vale la pena di ritornare a uno studio commissionato al Tufts Center (un centro studi sullo sviluppo dei farmaci finanziato dall’industria) del 2003. Questo rivela come quasi il 50% dei costi sia nella realtà finanziato da agevolazioni fiscali e fondi pubblici di ricerca. Se poi il farmaco è prodotto “in casa”, nasce cioè da ricerca originale della stessa azienda farmaceutica, i costi arrivano a dimezzarsi.
Escludendo dal calcolo il costo del capitale, ipotizzando cioè di non aver “perso” il guadagno se investito in Borsa (difficilmente calcolabile), i costi per un farmaco prodotto in casa può scendere a 43 milioni di dollari (dati del 2000).
Una cifra di molte volte inferiore a 1,3 miliardi di dollari, come proclamato qualche anno fa da Pfizer in un poster affisso alla fermata Westminster della metro di Londra.
Un dirigente della Johnson & Johnson ha affermato come sia finita l’era dei farmaci per malattie “semplici”. Oggi si ricercano prodotti per patologie più complesse, che richiedono investimenti elevati e per giunta associati a un consistente rischio di fallimento se inefficaci. Se il prodotto non funziona gli investitori saltano immediatamente su un altro carro, dove i profitti sono più promettenti.
Questa interpretazione è stata confutata da un articolo apparso sul British Medical Journal dove ancora una volta si conferma che molta ricerca viene ampiamente sostenuta da fondi pubblici. Così è avvenuto per più di un quarto dei farmaci approvati dalla Food and drug administration (Fda) dal 2008 al 2017.
Un chiaro esempio è stato il Remdesivir, antivirale per il Covid-19, finanziato con più di 70 milioni di dollari dai contribuenti statunitensi e poi profumatamente (ri)pagato dagli stessi al momento dell’acquisto.
Anche una recente ricerca apparsa sul Journal of the american medical association esclude vi sia relazione fra R&D e l’aumento di prezzo di 60 nuovi farmaci approvati dalla Fda dal 2009 al 2018. Se l’industria continua ad avallare la giustificazione dei costi elevati della ricerca dovrebbe fornire argomenti plausibili, si conclude.
Dal 1999 al 2018 Big Pharma (ovvero le 15 maggiori aziende farmaceutiche per fatturato) ha avuto profitti per 7.7oo miliardi di dollari mentre ne ha spesi 2.200 miliardi per assistenza alle vendite, attività amministrative e altro (compreso il marketing) non direttamente connesso alla produzione, mentre solamente 1.400 miliardi per ricerca e sviluppo.
Non sempre è chiaro che cosa comprenda la voce R&D nella quale spesso rientrano anche i cosiddetti seeding trials, studi post approvazione di un farmaco impostati come se dovessero rispondere a quesiti specifici, in realtà pensati per obiettivi di marketing.
Da quanto sopra appare evidente che Big Pharma spende più per vendere che per ricercare nuovi prodotti.
In più, nel periodo 1999-2018, è stato speso più per il cosiddetto buyback che per R&D. Acquistare le proprie azioni contribuisce a tenerne alto il valore e compensare il lavoro degli alti dirigenti, legando così le loro entrate ai profitti dell’azienda.
Il comitato investigativo della Camera (Us Committee on oversight) ha evidenziato come dal 2016 al 2020 le prime 14 compagnie farmaceutiche abbiano speso 577 miliardi di dollari in buyback e dividendi, 56 miliardi in più che per R&D, mentre i compensi dei dirigenti erano aumentati del 14%.
Anche l’Institute new economic thinking, un think tank di New York senza scopo di lucro, è giunto agli stessi dati per il periodo 2006-2015, concludendo che le 18 maggiori aziende del farmaco lavorano per un rientro a breve termine di quanto investito piuttosto che per una prospettiva futura di innovazione. Quello che importa veramente è il valore delle azioni e il loro dividendo annuale e nello stesso tempo il fenomeno del buyback indica che le compagnie hanno più cash che opportunità di investimento, preferendo rimanere improduttive in alcune fasi del mercato.
Sappiamo anche che le grandi aziende, più che in ricerca, investono in piccole compagnie emergenti che producono farmaci innovativi, riservando il grosso del capitale per l’acquisto di brevetti e produzione quando esistono farmaci promettenti in fase finale di sviluppo (è di dicembre 2023 l’acquisto di Seagen, pioniera di una nuova classe di farmaci antineoplastici anticorpo coniugati, da parte di Pfizer per 43 miliardi di dollari).
Ma che cos’è realmente un farmaco innovativo? Difficile trovare un consenso sul termine. Donald Light, professore al dipartimento di Psichiatria dell’Università di Medicina e odontoiatria del New Jersey, e Joe Lexchin, professore presso la Scuola di politica e gestione sanitaria dell’Università di York a Toronto, ritengono non vi sia un rapporto tra il numero di farmaci approvati e l’innovazione terapeutica conseguente.
Negli anni Settanta e Ottanta circa un farmaco su sei (16%) approvato negli Stati Uniti aveva offerto un guadagno terapeutico secondo la stessa Fda. Nello stesso ventennio in un altro studio risultava innovativo un farmaco su dieci. Dalla letteratura francese e tedesca più recente quasi nessun farmaco nei primi dieci anni di questo millennio ha aggiunto un qualche valore terapeutico all’esistente. Uno studio belga del 2022 definisce incerto il vantaggio di molti costosissimi farmaci oncologici sulla sopravvivenza e sulla qualità di vita.
Una nota positiva invece, nei farmaci sviluppati dal 1997 al 2016, è quella dei meccanismi d’azione innovativi. Ma siamo passati dai blockbuster (campioni di vendite) dedicati a patologie croniche e creati per avere un elevato volume di mercato, a farmaci di nicchia “niche booster” per patologie rare e/o indicazioni molto specifiche, così da ottenere un elevato prezzo di vendita.
Dal 2001 al 2005 i farmaci per malattie rare sono cresciuti del 25% rispetto a tutti quelli approvati, saliti al 52% negli anni 2016-2020. Nel 2021 oltre la metà dei farmaci approvati erano orphan drug (farmaci per malattie rare). Questo sia per poter imporre prezzi elevati, sia per ottenere benefici e incentivi dedicati a questa particolare categoria (dal 1983 negli Stati Uniti, dal 2000 anche in Ue) e non ultimo per la disponibilità dei pazienti a pagare di più. Purtroppo rimangono scoperti da questo modello di business le patologie tropicali trascurate (neglected diseases), l’antibiotico resistenza e le malattie infettive emergenti.
In molti mercati le autorità competenti giudicano un farmaco in base al profilo efficacia/sicurezza non sul valore clinico aggiunto e anche i brevetti danno maggiore importanza alle novità in sé del prodotto piuttosto che alla reale innovazione terapeutica.
Secondo la rivista francese Prescrire, che analizza ogni anno tutti i farmaci immessi in commercio, nel 2023 su 121 nuovi prodotti nessuno è stato definito innovativo o di reale progresso, dieci hanno offerto qualche vantaggio, 20 un vantaggio possibile, per 73 nulla di nuovo, infine 18 sono stati giudicati peggiorativi rispetto a quanto già esistente.
Considerando quanto detto è pensabile che le aziende farmaceutiche potrebbero fare molto di più nel campo dell’innovazione terapeutica ma che non lo faranno mai senza un intervento di stimolo delle agenzie regolatorie.
Queste ultime dovrebbero rendere più difficile un brevetto senza innovazione terapeutica (migliore dell’esistente); richiedere priorità per farmaci di reale interesse per la salute dei cittadini; migliorare l’allocazione dei fondi pubblici con possibilità di comproprietà di farmaci di pubblica utilità da commercializzare a prezzo ridotto; invitare le aziende farmaceutiche a condurre studi comparativi tra farmaci per conoscere il reale valore terapeutico di quanto disponibile; scoraggiare l’approvazione di prodotti me-too (simili al già esistente) e premiare aziende che producono reale innovazione.
Per le aree in cui la remunerazione è scarsa, come gli antibiotici per le infezioni da batteri resistenti, valgono gli incentivi cosiddetti push and pull: aiuti alla ricerca per ridurre i costi di R&D (push) e premi di risultato (pull) che garantiscano un ritorno finanziario.
Vi è dunque estrema necessità di farmaci che aggiungano valore terapeutico a quanto già è sul mercato e i governi, nonché le agenzie regolatorie, dovrebbero produrre stimoli in tal senso, per raggiungere obiettivi di sanità pubblica a prezzi sostenibili.
Giovanni Peronato, reumatologo, ha esercitato per molti anni all’ospedale San Bortolo di Vicenza. Ora in pensione
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