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Ambiente / Opinioni

Quale futuro per l’agricoltura nella transizione ecologica

© max Wagner - Unsplash

L’agricoltura è uno dei settori con il maggior impatto negativo sull’ambiente. Una sua riconversione agroecologica ridurrebbe l’erosione di biodiversità e migliorerebbe la nostra salute. Non basta aumentare la superficie a biologico per risolvere il problema: occorre un approccio olistico, spiega Riccardo Bocci della Rete Semi Rurali

Il recente cambio di governo, da Giuseppe Conte a Mario Draghi, ha riportato al centro dell’attenzione la tematica ambientale con l’istituzione del ministero per la Transizione ecologica. Transizione significa immaginare un cambiamento dal sistema oggi in atto verso un nuovo modello (e quindi riconoscere che nel nostro qualcosa non va). Ecologica vuol dire che questa transizione deve avere un obiettivo chiaro: riportare nell’agenda della politica il tema della compatibilità ambientale del nostro modello di sviluppo. Non è un tema da poco per un Paese, l’Italia, dove il movimento verde è sparito dai radar da molti anni e dove il termine sviluppo sostenibile non è ancora nella narrazione dei partiti politici troppo imbevuti dalla retorica della crescita come unico modello della nostra società.

Rispetto agli anni Novanta, quando si discuteva di sviluppo sostenibile (un ossimoro per alcuni ma almeno se ne parlava) o di revisione degli strumenti di analisi macroeconomica della ricchezza dei Paesi mettendo in crisi il dogma del Prodotto interno lordo, negli ultimi 20 anni non è stato fatto nessun passo avanti in questa direzione, ma al contrario tali tensioni sono completamente sparite in Italia. In altri Paesi europei come la Francia, ad esempio, pensatori, intellettuali e movimenti da alcuni anni animano il dibattito pubblico sulla nuova era geologica chiamata “antropocene” -quella in cui l’essere umano è il principale responsabile delle modifiche del Pianeta Terra- tanto da arrivare a coniare un nuovo filone letterario e culturale su quello che definiscono “effondrement”, il collasso della nostra società industriale (si veda ad esempio la serie “L’effondrement” sul canale AntTube).

Non avere più un misero ministero dell’Ambiente, foglia di fico di governi tutt’altro che “verdi”, ma al suo posto un ministro per la Transizione potrebbe essere un buon inizio. Ma questa transizione va intesa come un accompagnamento al cambiamento perché cambiare modello di sviluppo è un gioco in cui si fanno vincitori e vinti. Convertire settori economici e produttivi, riqualificare e riallocare competenze e forza lavoro è un processo che va governato dalla politica e non lasciato alle sole forze del mercato o scaricato sulle spalle dei lavoratori da convertire.

Al centro di questa transizione dovrebbe esserci un rinnovato patto sociale per l’agricoltura, uno dei settori produttivi con il maggior impatto negativo sull’ambiente. Potenzialmente una sua riconversione agroecologica, infatti, potrebbe mitigare i cambiamenti climatici, ridurre l’erosione di biodiversità e anche migliorare i nostri rapporti con il cibo e l’alimentazione e, quindi, la salute pubblica.

Il modello non è difficile da scegliere, da anni ormai si parla di agricoltura biologica. Ma promuovere la transizione vuol dire capire che non basta aumentare la superficie a biologico per risolvere il problema (quindi, ad esempio, allocare più risorse ad ettaro agli agricoltori che si convertono al bio), allo stesso tempo va affrontato il nodo dell’elevato consumo di carne nei nostri sistemi alimentari, aumentato il consumo di legumi nelle diete e ridotto lo spreco. Insomma, come ci dice l’articolo “Strategies for feeding the world more sustainably with organic agriculture” pubblicato su Nature nel 2017, ci vuole un approccio olistico che attui un cambiamento radicale di sistema a livello economico, sociale, tecnico e culturale. Non è solo un problema di nuove tecnologie da adottare.

Così scriveva nel 2020 il neo ministro alla Transizione ecologica Roberto Cingolani nel libro “Prevenire. Manifesto per una tecnopolitica”, scritto con l’epidemiologo Paolo Vineis e il giornalista scientifico Luca Carra: “Occorre essere sicuri che i problemi generati da ogni nuova tecnologia non siano superiori ai benefici che essa introduce. Ma in tale processo il mercato non può essere l’unico meccanismo di selezione delle tecnologia più efficaci […]. Serve una nuova tecnopolitica basata sulle prevenzione, capace di guidare lo sviluppo umano entro il perimetro dei confini planetari. Per questo occorre che la scienza impari a essere interdisciplinare, e molto più diffusa e partecipata dalla popolazione di quanto non sia attualmente. È necessaria, infine, una dimensione internazionale della salute, dell’ambiente e dell’economia, che prevalga sulle chiusure localiste e improntate alla paura dell’altro. Un nuovo, e pacifico, internazionalismo”. Ci auguriamo che queste parole non restino solo sulla carta.

Riccardo Bocci è agronomo. Dal 2014 è direttore tecnico della Rete Semi Rurali, rete di associazioni attive nella gestione dinamica della biodiversità agricola

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