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Esteri

Prove di Fair Trade in Birmania

Dopo esser stato governato per 60 anni da una giunta militare, dal 2008 il Paese asiatico cammina verso la democrazia. Tra le nuove iniziative possibili, la creazione di una rete tra gruppi artigiani in tutto il Paese, e il primo negozio di commercio equo e solidale locale a Yangon. Si chiama “Pomelo” —

Tratto da Altreconomia 157 — Febbraio 2014

A metà dicembre il clima a Yangon è secco. Mentre percorro le strade alla periferia della capitale birmana immagino la vita durante la stagione delle piogge, che va da maggio a settembre.
Chi mi accompagna racconta degli allagamenti quotidiani e degli insetti, ma quello che colpisce di più è il racconto della muffa che a causa dell’altissimo tasso di umidità si forma nei computer se rimangono spenti per qualche tempo. Anche nella stagione secca, però, l’acqua non manca: siamo nel vasto delta dell’Irrawaddy, l’immenso fiume che scende dagli altipiani dell’Himalaya creando una delle regioni risicole più importanti del mondo.

Mi accompagnano a visitare un ostello di Phoenix Myanmar (Myanmar è la denominazione ufficiale di quella che continuiamo a chiamare Birmania), un’associazione di auto-aiuto creata nel 2005 da alcuni collaboratori di Medici senza frontiere.
Sulla porta ci accoglie una giovane signora che abita qui con i due figli e gestisce la struttura. Masoe, come molte altre donne birmane, porta sul viso tracce di thanaka, una crema giallastra ottenuta dalla corteccia triturata di alcuni alberi e utilizzata tradizionalmente come protezione solare e cosmetico. Prima di entrare nell’ostello, come in tutte le abitazioni o negli edifici sacri, resto a piedi nudi. Masoe mostra il nuovo lavatoio e la nuova cucina, e mi accompagna al primo piano, costituito da una grande camerata capace di ospitare diverse decine di ospiti.
In tutto il Myanmar Phoenix ha realizzato e gestisce una rete di una dozzina di ostelli per sieropositivi e tubercolotici. La maggior parte sono localizzati nelle zone rurali degli Stati di Kachin e Shan, al confine con la Cina. Ce lo spiegano Thiha Kyaing e Sithu Han, mentre mi accompagnano nella loro sede nella periferia di Yangon. 
I malati possono essere ospitati negli ostelli durante il periodo in cui si sottopongono ai trattamenti antiretrovirali proposti attraverso la rete degli ospedali statali o degli ambulatori internazionali. Questo modello di assistenza è l’unico possibile fintantoché il ministero della Salute birmano non riuscirà a costruire una rete di assistenza che consenta ai malati di essere trattati senza dover lasciare il proprio villaggio.
I fondi per le attività mediche provengono soprattutto dal Global Fund to Fight AIDS, Tuberculosis and Malaria, un megafondo internazionale creato nell’ambito del G8 e finanziato finora soprattutto dai grandi Paesi occidentali, compresa l’Italia che nello scorso dicembre ha dichiarato l’impegno a versare 100 milioni di euro complessivi nei prossimi tre anni.
I grandi donatori e le grandi organizzazioni internazionali sono fondamentali per assicurare i fondi necessari alle cure mediche, ma è solo la presenza di iniziative spontanee a garantire la buona riuscita dei progetti di assistenza sociale.
Un progetto come quello di Phoenix sembra uscito dai manuali di promozione dell’empowerment di comunità: una associazione totalmente birmana, composta quasi interamente da sieropositivi (lo erano tutti i fondatori). I malati dopo aver ricevuto le prime cure si sono resi conto che avrebbero potuto costituire un potente veicolo di affermazione della fiducia in sé stessi degli altri pazienti.
Oggi Phoenix viene finanziata da donazioni e attraverso iniziative di autofinanziamento, in particolare la tessitura e la sartoria. I tanti laboratori sparsi per il Paese sono in grado di produrre gonne, sciarpe, borse e altri manufatti che vengono venduti nelle loro sedi.
Anche in Myanmar, infatti, si sperimentano modelli associativi a rete, come dimostra anche l’esperienza di Pomelo, un negozio aperto in pieno centro a Yangon nel febbraio 2011. Il pomelo è un grosso agrume, con un sapore simile a quello di un pompelmo dolce e si trova ovunque nei mercati di strada di Yangon. Se ne rimuovete la spessa scorza, il frutto è composto da tanti pezzi di varie dimensioni. Allo stesso modo, il negozio di Pomelo ospita prodotti artigianali di circa 15 gruppi locali attivi in tutto il Myanmar e costituisce di fatto il primo tentativo di sperimentare il commercio equo e solidale nel Paese. Un tentativo nato dal basso e non ancora certificato.
Tra i molti prodotti ospitati, gli splendidi gioielli dei ragazzi assistiti da un centro di supporto ai minori affetti da varie forme di disabilità, sempre nella periferia di Yangon. Ci sono anche i prodotti in legno dei falegnami e gli abiti delle sarte, giovani disagiati riuniti da Helping Hands, una piccola associazione di Yangon. Oppure i finissimi tessuti di Sone-Tu, che offre lavoro a oltre cento donne, recuperando intrecci tradizionali con nuove tecniche di tessitura. Le donne sono le principali beneficiarie del reddito prodotto grazie a Pomelo, garantendo così una spesa che finanziano l’istruzione dei figli e i piccoli investimenti che migliorano la qualità della vita quotidiana.
Ad una donna è legata anche la storia politica di questo Paese. La lunga marcia del Myanmar verso la democrazia, ostacolata per decenni dalla giunta militare, sembra aver compiuto passi decisivi ora che Aung San Suu Kyi siede in Parlamento. Sono passati 23 anni dal 1991, anno in cui il premio Nobel per la Pace fu assegnato alla allora quarantaseienne leader della Lega nazionale per la democrazia (NLD), che dal 2010 è definitivamente in libertà dopo quasi quindici anni passati agli arresti, in vari periodi successivi.

Negli ultimi 4 anni molte cose sono cambiate, compreso il traffico sulle strade di Yangon che nelle ore di punta rischia di bloccare il giornalista che su un taxi percorre la University Road, l’arteria urbana a quattro corsie che costeggia il lago Inya, dove un enorme striscione giallo e rosso del NLD sormonta l’ingresso della villa di Aung San Suu Kyi.
Proprio a Yangon si tennero, nel 1988, le prime importanti manifestazioni di piazza contro il regime militare, che reagì con durezza provocando diverse migliaia di morti. Nel 1990 furono concesse libere elezioni vinte dalla Lega nazionale per la democrazia, anche se i risultati non furono riconosciuti e i militari mantennero rigidamente il potere fino alla cosiddetta Rivoluzione Zafferano del 2007, che fu condotta con metodi nonviolenti da migliaia di monaci buddisti ed esponenti dell’opposizione.
Ma è il 2008 l’anno decisivo per le sorti del Myanmar. In maggio si tenne il referendum che approvò la nuova costituzione. Il referendum sancì la disponibilità della giunta militare a lasciare il potere in favore di un governo civile. In quello stesso mese il Myanmar fu colpito dal ciclone Nargis, uno dei più devastanti di tutti i tempi, che attraversò la zona del delta dell’Irrawaddy. Una stima precisa dei morti causati da Nargis è tuttora impossibile, a causa dell’isolamento che la giunta militare aveva imposto al paese, ma si ritiene che siano almeno 140 mila.

Gli stessi militari al potere, dopo aver cercato di minimizzare gli esiti devastanti del ciclone, accettarono l’intervento delle grandi organizzazioni non governative internazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite.
Le operazioni di soccorso alle vittime del ciclone furono anche un’importante occasione di apertura per un Paese rimasto per molti anni isolato dal resto del mondo. Anche per le maggiori Ong, come Medici senza frontiere, che erano già presenti nel Paese ma avevano l’obbligo di limitare la loro attività in alcune aree circoscritte. Le attività delle Ong sono dedicate soprattutto alla prevenzione e all’assistenza dei malati di malaria e ai sieropositivi, che nell’80% dei casi sono anche malati di tubercolosi.
I numeri ufficiali del Programma delle Nazioni Unite per l’AIDS/HIV parlano di 200mila sieropositivi su una popolazione di 60 milioni di persone, ma i malati sono con tutta probabilità largamente sottostimati. Nel Paese infatti fino a pochissimo tempo fa non c’era nessuna informazione sulle modalità di contagio, e lo scopre chiacchierando con un autista: ha scoperto i rischi che correva frequentando le prostitute solo quando ha iniziato a lavorare per una Ong.
Il processo verso una piena democrazia, l’empowerment delle associazioni locali, un circuito di realtà che si ispira al commercio equo e solidale, l’assistenza ai malati e le campagne informative di prevenzione sono tra le positive ricadute della transizione in atto in Myanmar.
Ma non mancano le ombre. Fino al 2008, la dittatura militare soffocava ogni tipo di spinta, dai movimenti democratici al razzismo contro i musulmani, e limitava anche la libera iniziativa privata e il ruolo delle multinazionali.
Oggi che quel tappo è saltato, e la Birmania si candida ad essere il prossimo Paese dove le grandi multinazionali potranno trovare fornitori di manodopera a basso costo.
Questa è la sensazione che ci coglie visitando il cantiere della fabbrica di sigarette messo in piedi da una joint venture birmano-giapponese. A quattro mesi dalla fine delle sanzioni, decretato dall’Unione europea nell’aprile scorso, sono stati approvati nuovi progetti per un totale di circa 1,3 miliardi di euro, più che in tutto il 2012.
Ma i principali investitori sono per l’appunto gli altri Paesi asiatici, come la Malesia e il Giappone, oltre che ovviamente il vecchio alleato cinese.
Ma la principale minaccia che sembra incombere sul futuro del Myanmar sono le tensioni interetniche: pare impossibile che si possano sviluppare in un Paese dove esistono 135 gruppi etnici riconosciuti ufficialmente, appartenenti a otto etnie principali, ma una serie di conflitti attraversa diverse zone del Paese, ad esempio con le minoranze Kachin e Karen. I problemi più gravi sono forse con l’unico gruppo non riconosciuto, i Rohingya, una piccola minoranza musulmana che abita le zone di confine con il Bangladesh. Sono infatti considerati immigrati dell’epoca del dominio britannico, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Dal 1982 i circa 800mila Rohingya presenti in Myanmar (altrettanti sono sparsi in altri Paesi del sudest asiatico) sono stati privati del diritto di cittadinanza e sono vittime di veri e propri pogrom che si scatenano periodicamente.
Le cifre ufficiali ci dicono che gli ultimi episodi nel 2012 hanno causato un centinaio di morti e 50mila profughi. Le organizzazioni dei Rohingya parlano di 600 morti, oltre 1.000 dispersi e 140mila profughi. Tra i seminatori di odio contro i musulmani è ormai assurto alle cronache internazionali il monaco buddhista Wirathu che ha perfino ottenuto la copertina di Time (“il volto del terrore buddista”), a causa della sua predicazione antimusulmana.
Ma la tutela delle minoranze è un tema su cui nemmeno Aung San Suu Kyi si è ancora espressa chiaramente, sollevando molte polemiche. L’icona delle battaglie per i diritti umani ha l’occasione per dimostrare che le sue lotte valgono per tutti. Non vale la pena che la perda.—
 

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