L’urbanistica è una lingua straniera: 100 parole “tradotte” in italiano per imparare a leggere le trasformazioni del suolo contenute nelle leggi e nei piani. E dire “sì” alla tutela del suolo e al riutilizzo di quel che già esiste.
Ci sono parole che, sotto una mano di verde, hanno il cuore di cemento. Così una mattina scopriamo che davanti a casa nostra è sorto un nuovo cantiere e le betoniere stanno asfaltando l’ultimo prato libero, anche se la legge e il piano urbanistico sembravano chiari al riguardo. Che cosa ci è sfuggito? L’urbanistica è ormai una lingua straniera, un gergo governato da pochi, pieno di parole dal significato incomprensibile e scivoloso, con una grammatica ambigua che quasi sempre fa scempio del suolo (dicendo che lo sta salvando).
Questo libro svela -attraverso “lemmi”, esempi, citazioni, aneddoti- il significato di oltre 100 parole dell’urbanistica, da “àmbito” a “urban sprawl”.
Perché “i cittadini hanno il diritto (e il dovere) di capire ogni parola scritta nelle leggi e nei piani urbanistici”.
Un aiuto per imparare a leggere, “tradurre” in italiano e interpretare la legge della propria Regione, il piano del Comune o una sentenza del Tar, e denunciarne le incongruenze. Perché la cultura e la conoscenza sono le armi più affilate contro il consumo di suolo e la comprensione delle parole ne è l’impugnatura.
Un libro con una potente carica etica e civile, rivolto a cittadini e comitati, ma anche a studenti, urbanisti, amministratori pubblici: “Questo dizionario ci restituisce le parole e il loro significato, ma anche gli strumenti per chiedere con cognizione di causa che il suolo -risorsa delle risorse- resti terreno agricolo, prato, bosco e non diventi una distesa di cemento”.
Dall’introduzione di Tomaso Montanari
Questo breve testo potrebbe avere come motto una celebre frase di Nanni Moretti: “chi parla male, vive male”. Allora per provare a vivere bene, cominciamo a parlare bene.
La presenza di uno storico dell’arte per introdurre questo libro può sembrare eccentrica, per certi versi: e in effetti potrebbe esserlo davvero, per come la storia dell’arte è stata intesa per molto tempo in questo Paese. E invece credo che, nell’ambito delle discipline storiche, la storia dell’arte sia una di quelle che ha provato, almeno in certi suoi filoni, a tenere vivi i legami con il suolo, pur chiaman- dolo in tanti altri modi. Se dovessi invece scegliere un motto per la storia dell’arte nella sua vicenda culturale, mi verrebbe voglia di scegliere una bella e famosa frase del Vangelo di Luca: «qui se humiliat, exaltabitur», chi si umilia sarà esaltato, sarà innalzato.
Potremmo dire: chi si avvicina al suolo, all’humus, alla terra, sarà salvato, si innalzerà. Questa, in fondo, è la storia della storia dell’arte, la storia sociale dell’arte. Chi studia la vicenda degli artisti nel contesto della società, nei secoli, sa che la grande scommessa degli artisti – dall’inizio del Quattrocento in poi – è stata quella di essere accolti come intel- lettuali: diremmo oggi, come umanisti liberali, ma senza tradire la propria “meccanicità”, la propria connessione con la terra, il proprio rapporto ombelicale con il materiale.