Ambiente / Opinioni
Perché ridurre le emissioni di gas climalteranti conviene
Modelli economici sballati ridimensionano l’impatto dei cambiamenti climatici. Ma la complessità del Pianeta li smonta. La rubrica a cura di Stefano Caserini
Nei giorni più caldi di questa estate sono stato coinvolto in un dibattito su quanto potrebbe costare in termini economici un incremento delle temperature globali di 3°C o 3,6°C, circa il doppio dell’obiettivo dell’Accordo di Parigi. Secondo i risultati di alcuni modelli economici, la riduzione del Prodotto interno lordo globale a causa di simili aumenti delle temperature sarebbe di “alcuni punti percentuali”. Siccome il Pil mondiale comunque aumenta, alla fine l’impatto economico di questa riduzione sarebbe molto piccolo. Da qui la conclusione: ma davvero dobbiamo impegnarci per ridurre le emissioni di gas serra per ottenere emissioni nette zero nel 2050? Una variazione sul tema è “ridurre le emissioni costa troppo”. Oppure “se si fa un’analisi costi e benefici si vede che non conviene ridurre drasticamente le emissioni di CO2”. Non è un argomento nuovo: quando le lobby fossili vollero affossare la ratifica del Protocollo di Kyoto da parte degli Stati Uniti, utilizzarono l’argomento dei presunti grandissimi costi della ratifica, dell’inefficienza economica del Protocollo, sostenendo -sbagliando già allora- che i costi della ratifica superavano i benefici.
2% è la riduzione del Pil che secondo alcuni studi si avrebbe con un aumento delle temperature globali di 3°C. Ma il Pianeta considerato da questi studi è molto, molto diverso da quello in cui viviamo
Per fare queste valutazioni economiche è necessario conoscere i costi sia dei danni dei cambiamenti climatici sia delle azioni di mitigazione. Non si intende una conoscenza con precisione assoluta, impossibile per valutazioni di questa complessità, ma con una ragionevole approssimazione. Ad esempio, non sbagliare di ordini di grandezza. Oppure non trascurare tanti tipi di costi che andrebbero considerati. Altrimenti l’analisi economica diventa un esercizio teorico di nessuna utilità concreta. Nel migliore dei casi interessante dal punto di vista metodologico, da discutere in una o più pubblicazioni scientifiche. Nel caso peggiore un giocattolo per mascherare una battaglia ideologica, o per ammantare di scientificità azioni criminali di disinformazione volte a difendere interessi economici particolari. Approfondendo gli studi sulla riduzione del Pil per grandi aumenti di temperatura, non è difficile capire che il motivo per cui questi modelli economici forniscono valori così bassi di riduzione del Pil è perché stanno considerando un Pianeta molto diverso da quello su cui vivono 7,8 miliardi di esseri umani, molto più semplice e comodo da schematizzare di quello reale. Ad esempio non considerano che le emissioni di CO2 stanno acidificando i mari a livelli senza precedenti da quando sulla Terra esistono forme di vita evolute. Non considerano numerosi e importanti conseguenze di un mondo così surriscaldato: impatti legati alla fusione delle calotte glaciali e del permafrost, al possibile aumento di decine di metri del livello dei mari, gli impatti di uragani, incendi e siccità o della distruzione della biodiversità.
Solo alcuni studi hanno recentemente iniziato a quantificare gli impatti economici del superamento delle soglie critiche di diverse componenti del sistema climatico (per esempio calotte glaciali, permafrost, monsoni). Considerando gli impatti collegati a questi fattori, fra loro collegati, si arriva a stime dei danni superiori anche di otto volte a quelli che non considerano questi aspetti. Se evitiamo di considerare il Pianeta per come è realmente, con la sua complessità, allora non conviene ridurre le emissioni di gas climalteranti. Ma nel mondo idealizzato dei modelli economici non potremo viverci, per fortuna.
Stefano Caserini è docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Il clima è (già) cambiato” (Edizioni Ambiente, 2019)
© riproduzione riservata