Ambiente
Parola d’ordine: salvare Kyoto
Niente deve essere mai dato per scontato, tanto meno nella grande arte della diplomazia internazionale. Una Conferenza di basso profilo, hanno dichiarato tutti, così da creare un ponte ideale con la più efficiente e determinata COP17 di Durban, Sudafrica, che…
Niente deve essere mai dato per scontato, tanto meno nella grande arte della diplomazia internazionale. Una Conferenza di basso profilo, hanno dichiarato tutti, così da creare un ponte ideale con la più efficiente e determinata COP17 di Durban, Sudafrica, che dovrà aprire le porte a un nuovo ordine climatico mondiale e al Sudafrica come grande mediatore.
Molti si aspettavano il risultato di minima, giusto per salvare la faccia, al punto che diverse organizzazioni in prima fila sulla difesa ambientale hanno scelto un profilo basso, giusto per non creare false aspettative.
Ma come si sa in politica chi è assente ha sempre torto e nel disimpegno generale, a differenza di Copenhagen dove "The World was watching", il rischio della frittata è stato a portata di mano. Le denunce dei Governi dell’Alba di pochi giorni fa hanno trovato conferma nelle parole della segretaria generale Figueres, ma anche negli accenni durante la plenaria in cui si faceva diretto riferimento al tentativo alcuni Paesi dell’Umbrella group (che comprende tra gli altri Russia, Giappone, Canada, Stati Uniti) di affossare definitivamente Kyoto e le sue aspirazioni.
A nessuno fa piacere aprire il portafoglio per pagare gli errori commessi, ma di fronte ai disastri commessi diventa senso di responsabilità mettere a posto i cocci di un clima impazzito. E Kyoto cerca, anche se in maniera perfettibile, di fare proprio questo basandosi sul concetto di "responsabilità storica" delle emissioni e di "responsabilità differenziata" dei Paesi per ciò che riguarda l’inquinamento globale. E’ di poche settimane fa la rivelazione di Bloomberg che il 20% di tutti i gas climalteranti emessi dal 1750 al 2005 provengono dal Paese di Lincoln e di Washington, mentre la Cina avrebbe contribuito per il 12%, uno scenario che cambierà nei prossimi anni quando la Cina (con un miliardo e mezzo di abitanti) sarà responsabile del 16,2% delle emissioni, mentre gli Stati Uniti arriveranno al 15,7% (con 322 milioni di abitanti). La gara sul primo della classe è evidente, ma emerge anche l’impatto dei consumi procapite, vero argomento di discussione.
Lo sforzo della presidenza per riportare tutti costruttivamente al negoziato è evidente, e la forza del fronte G77 più Cina più Paesi dell’Alba ha permesso che la bozza di documento presentata dal chair del gruppo di lavoro sul Protocollo di Kyoto e resa pubblica ieri mattina ha sbaragliato le carte dell’Umbrella Group. Ma la strada è ancora molto accidentata: non è data per scontata la "baseline" su cui basare il taglio delle emissioni: 1990? 2000? 2005? Più si va avanti nel tempo e più il taglio per i Paesi industrializzati diventa risibile.
Ma neanche sulle percentuali (con opzioni tra parentesi quadra) e sull’ampiezza del periodo post-Kyoto. I lavori ricominciano oggi, le delegazioni governative stanno arrivando.
Copenhagen fu un fallimento, ma su Cancun dovremmo scommettere per un pacchetto realmente bilanciato e per evitare un disastro. "The World" a Copenhagen stava guardando, probabilmente è venuto il momento che ricominci ad aprire gli occhi.