Opinioni
Parigi e l’ideologia della violenza
Gli attentati del 13 novembre nella capitale francese sono la scintilla capace di innescare quello che sarà presentato nuovamente come uno “scontro di civiltà”, ma che è solo "l’incessante corrispondersi delle inciviltà presenti un po’ in ogni parte del mondo". Non dobbiamo prepararci alla guerra, dobbiamo cominciare a uscirne. Il commento di Roberto Mancini
L’unica ideologia. È la violenza, che ritorna sotto mille bandiere e motivazioni apparentemente diverse. È la stessa ricorrente menzogna che si ripresenta di volta in volta in forme differenti, di tipo religioso, politico, economico, etnico o sessista. Non importa in nome di che cosa o di chi, ciò che conta è colpire, distruggere, vincere e pubblicare on line le scene della propria feroce stupidità. Gli attentati del 13 novembre scorso a Parigi hanno messo in scena la solita liturgia rovesciata dell’immolazione di vittime sull’altare della menzogna paranoica che porta a decidere la morte degli altri e, come stavolta, anche la propria, nella folle illusione di credersi martiri per una causa superiore. Questo crimine, prevedibilmente, sarà la scintilla d’innesco per una catena di ulteriori violenze e controviolenze, per la crescita dei fanatismi incrociati. Ma non si tratta di “scontro di civiltà”, è piuttosto l’incessante corrispondersi delle inciviltà presenti un po’ in ogni parte del mondo. Il disumano trionfa nell’attacco terrorista che semina morte in una capitale europea facendo centinaia di vittime, così come nell’attacco di chi va a bombardare tra le montagne dell’Afghanistan causando quei “danni collaterali” per cui si colpisce la popolazione inerme, per esempio una scuola, un ospedale, un banchetto nuziale.
In questo diabolico groviglio di tendenze paranoiche è forte e immancabile anche il fattore economico, per almeno due ragioni. La prima consiste nel fatto che i governi e le aziende delle varie nazioni fanno volentieri affari persino con i propri nemici ufficiali: per il petrolio, per vendere centrali nucleari, per le forniture di armi e così via. La seconda risale alla disperazione e alla povertà che un’economia ingiusta infligge a moltitudini di persone, determinando un’esasperazione che diventa odio e che esplode quando si somma a una differenza etnica e religiosa. All’iniquità generata per via economica prima o poi fa riscontro la violenza diretta. In uno scenario del genere la prospettiva della costruzione di un’altra economia aiuta a capire che la via della globalizzazione capitalista porta alla rovina: non solo il suo Mercato non sa costruire alcun ordine di convivenza per la società mondiale, ma anzi proprio la tendenza a fare mercato di qualsiasi cosa, valore, vita, bisogno o diritto è tra le cause della radicalizzazione e della crescita dei processi distruttivi sul pianeta.
Non ci serve un’economia globalizzata, che non guarda in faccia nessuno e mette i popoli gli uni contro gli altri. Ci serve un’economia dei popoli e degli equilibri. Dei popoli, nel senso che ognuno di loro deve avere garantita la propria sussistenza e la propria sovranità economica democratica. Degli equilibri, nel senso che la sostenibilità sociale e ambientale dev’essere assicurata evitando di stravolgere la natura e di creare diseguaglianze assurde nella società. È evidente che l’economia dei popoli e degli equilibri prenderà forma concreta solo quando si attuerà un rinnovamento politico radicale, con l’emergere di governi realmente democratici nelle diverse aree del mondo. Ma una svolta simile, così ardua da immaginare oggi, richiede la condizione di un incontro operativo tra le culture. Un incontro che sia esperienza di dialogo e soprattutto di corresponsabilità per le sorti dell’umanità.
Bisogna dare vita a un grande apprendimento reciproco, imparando a superare le tentazioni, rispettivamente, della presunzione di superiorità, del complesso di inferiorità e dell’isolazionismo. Non dobbiamo prepararci alla guerra, dobbiamo cominciare a uscirne. Perciò si tratta di coltivare la giustizia, la conoscenza reciproca, la democratizzazione. E di promuovere non solo il dialogo tra culture diverse, ma la nascita della culture corali. Alludo a tradizioni che sappiano coniugare il senso dell’identità e il senso della relazione, senza sacrificare né l’uno né l’altro. Non è una riedizione del cosmopolitismo classico, è la via di una trasformazione della vita quotidiana secondo l’orientamento che armonizza ciò che è tradizionale con ciò che è universalmente umano. Dobbiamo far crescere le culture corali sui territori, sui posti di lavoro, a scuola, nelle forme di comunità che sapremo generare. Così, anziché lasciarci arruolare nella guerra delle inciviltà, favoriremo la maturazione della conversione etica di tutte le tradizioni, quella per cui i popoli imparano a rispettarsi e a scegliere il loro bene comune. —
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