No logo: contro il marchio infame – Ae 18
Numero 18, giugno 2001La prima volta che l'ho visto ci sono rimasta male. C'era qualcosa di inusuale nell'enorme e luminescente cartellone pubblicitario che era spuntato su Porta Ticinese a Milano, una delle vecchie porte d'accesso della città, ma non sapevo…
La prima volta che l'ho visto ci sono rimasta male. C'era qualcosa di inusuale nell'enorme e luminescente cartellone pubblicitario che era spuntato su Porta Ticinese a Milano, una delle vecchie porte d'accesso della città, ma non sapevo dire che cosa. E non ho saputo dirlo fino a quando non sono arrivata a pagina 61 (edizione italiana, 32 mila lire) di “No logo”, il libro di Naomi Klein dedicato al branding, ovvero a come è cambiato il nostro modo di fare la spesa (anche quella culturale): pensiamo di comprare merci e invece compriamo marchi (brand, appunto).
Di per sé, quella tra merce e marchio avrebbe potuto sembrarmi variazione di poco conto in una società come la nostra che ha già interiorizzato l'onnipresenza del mercato. Se non fosse stato per quel cartellone luminoso che pubblicizzava, come accadrà anche quest'estate, l'Heineken jammin' festival, la due giorni di musica non-stop all'autodromo di Imola.
Musica? Ecco quel che c'era di strano! Il mio (e vostro) cartellone era la fase finale della lunga marcia dello sponsor che man mano si è sostituito all'evento ed è diventato esso stesso l'evento. “I produttori di birra -scrive la Klein a proposito di Molson e Miller, produttori di birra come Heineken- non sono più soddisfatti di avere il loro logo sugli striscioni ai concerti rock, ma promuovono un nuovo tipo di concerto sponsorizzato, in cui le star che si esibiscono vengono completamente messe in ombra dal marchio che le ospita”. Anche se la star si chiama Vasco Rossi. I giovani non vanno al concerto di Vasco, vanno al concerto di Heineken. Solo i giovani?
La realtà è che ci hanno sfilato la sedia dove eravamo seduti e non ce ne siamo neanche accorti. Quest'anno i milanesi in cerca di un po' di fresco nell'estate ormai tropicale (grande caldo e monsone quotidiano) non andranno più sulle rive dell'idroscalo ma andranno all'Idropark Fila, dal nome del nuovo sponsor (e c'è da credere che i giornali, dando conto degli appuntamenti e degli spettacoli cominceranno a parlare sempre più di Idropark Fila e prima o poi anche noi ci dimenticheremo che quello era soltanto l'idroscalo di Milano).
Ma avete per caso protestato quando il vostro palazzetto dello sport, tutto a un tratto, è diventato Palatrussardi e poi Palavobis? No, tutti ci siamo messi a chiamare con il nuovo nome questi luoghi. Così anche chi non ci va (o non porterebbe mai una maglietta con su scritto -e fa tendenza- il nome del produttore a caratteri cubitali) diventa -rilanciando il suo nome- un vettore di pubblicità. (P.s. da quest'estate anche lo storico, un po' fascista e milanesissimo Palalido diventerà l'Italia on line Stadium!).
Così rischiamo di non avere niente da dire quando, magari in grazia dell'autonomia scolastica, Swatch o una qualsiasi marca di merendine sponsorizzerà una scuola elementare e poi chiederà di darle il nome. Che c'è di male? Se solo la domanda vi si affaccia alla mente, dovete per forza leggere “No logo”, anche se le 450 pagine del libro non sono sempre un bell'esempio di scrittura. La documentazione però è ottima, come quando si racconta delle mense scolastiche Usa: nel 1997, la Twentieth Century-Fox è riuscita a far sì che i piatti inseriti nei menù delle mense di quaranta scuole elementari si chiamassero con i nomi dei personaggi del cartone animato 'Anastasia'. I bambini potevano ordinare un 'sandwich Bartok con costata alla Rasputin' e 'dolce caramellato al burro d'arachidi Dimitri'. La Disney e la Kellogg's si sono impegnate in simili promozioni sui menù attraverso School Marketing, una società che si definisce 'agenzia pubblicitaria per mense scolastiche'”.
Per i marchi, spiega Naomi, “non si tratta di sponsorizzare la cultura ma essere la cultura”. Adesso è chiaro: ecco la posta in gioco. E siccome “No logo” parla soprattutto “della scomparsa di uno spazio culturale libero da marchi”, l'esempio di quello che il branding dei produttori di birra ha fatto con i concerti è uguale a quello che ha fatto la Nike con lo sport: ha sostituito il marchio alla musica, il suo “swoosh” all'idea stessa dello sport. Ma lo stesso è avvenuto con le riviste: Benetton non si è accontentato di fare pubblicità sui media patinati, è diventato lui stesso una rivista, “Colors”: il marchio come stile di vita, come modo di pensare, di sentire, di mettersi in relazione con gli altri.
“Così, mentre le riviste assomigliano sempre più ai cataloghi, i cataloghi assomigliano sempre più a riviste. È accaduto per Abercombrie&Fitch, J.Crew, Harry Rosen e Diesel”.
La Klein ha lavorato 4 anni per confermarsi in quelle che all'inizio erano soltanto intuizioni: “I grandi sponsor e la cultura che hanno marchiato con i loro logo si sono fusi per creare una terza cultura: un universo autoreferente di persone-marchio, prodotti-marchio e mezzi di comunicazione-marchio” . E la Nike, la regina dei supermarchi, -a cui nel libro davvero non viene risparmiato niente-, “è come un grosso Pac-Man, la cui avidità di consumo non è dettata dalla cattiveria, ma dal riflesso condizionato ad aprire e chiudere le mascelle”.
No logo globalizza la protesta
Brutale ed efficace. Ecco il procedere di “No logo”.
Un libro che mette a disagio (“ma guarda dove siamo arrivati”), regala qualche brivido di auto-euforia (tipo “questo l'avevo intuito anch'io”) fa schierare e suscita iniziative: c'è infatti un movimento politico che si sta formando e che si oppone al dominio dei marchi, che poi è quello delle multinazionali. E mentre, di fronte alla globalizzazione, molte forme di resistenza politica si dimostrano piccole piccole, questa nuova “resistenza antimultinazionale, condotta attaccando una dopo l'altra le tendenze di marketing d'avanguardia”, riesce a coalizzare e mobilitare le folle. www.nologo.org