Esteri
Nigeria, perché i rapimenti – Ae 86
Dopo l’Iraq, il Delta del Niger e il Golfo di Guinea potrebbero diventare teatro di un nuovo intervento militare per il controllo del petrolio. Oggi la ricchezza finisce alle compagnie occidentali, e non alla popolazione. Che si ribella. L’ultimo libro…
Dopo l’Iraq, il Delta del Niger e il Golfo di Guinea potrebbero diventare teatro di un nuovo intervento militare per il controllo del petrolio. Oggi la ricchezza finisce alle compagnie occidentali, e non alla popolazione. Che si ribella. L’ultimo libro di Altreconomia
Fumi nauseabondi, bidonville di fango e lamiera, strade lacerate da buche che sembrano crateri. Ma anche grandi complessi residenziali hi tech; land rover nuove fiammanti; ville sontuose protette da guardiani armati fino ai denti.
Questa è Port Harcourt, la capitale del petrolio nigeriano, il florido porto di pesca trasformato dallo sfruttamento del greggio in un agglomerato caotico e incerto, che sembra un parto della mente allucinatoria di Philip K. Dick. A Port Harcourt manca spesso la luce; la benzina è razionata e costa più che a Lagos, anche se è da qui che proviene il petrolio che serve a raffinarla. Le emissioni di gas associate all’estrazione del greggio illuminano come torce infernali le giungle di mangrovie che si attorcigliano nel labirinto dei creeks, i mille rivoli dell’immenso fiume Niger. L’acqua è nera, scurissima, oleosa. Le baraccopoli si allungano sulle rive, prive di servizi igienici e di servizi tout court. A poca distanza, le grandi compagnie occidentali (l’anglo-olandese Shell prima di tutto, ma anche le statunitensi Exxon e Chevron, la francese Total e l’italiana Agip) hanno costruito e recintato le loro oasi di benessere. Inaccessibili agli estranei, ma incapaci di sottrarsi all’occhio penetrante di Google earth, i loro complessi residenziali declinano un agio fuori misura: all’interno di quello della Shell c’è un campo da golf; in tutti c’è una bella piscina in cui l’acqua è cambiata quotidianamente. I loro tecnici lavoratori vivono all’interno di queste enclave di lusso, da cui si allontanano raramente, per timore di essere sequestrati dai vari movimenti ribelli spuntati nella regione come funghi.
Quando arrivai -nel gennaio 2007- a Port Harcourt, su indicazione dei guerriglieri del Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger (Mend) che tenevano sequestrati tre tecnici dell’Agip da due mesi e volevano farmeli incontrare, mi imbattei in questo paesaggio apocalittico: un traffico allucinante, rotto solo dalle sirene delle camionette di scorta per i lavoratori bianchi che si spostavano in città in convogli blindati; un cielo denso di fumo nero e code chilometriche di fronte alle stazioni di benzina. Negli accordi presi per e-mail, il leader guerrigliero Jomo Gbomo mi aveva detto di scrivergli non appena fossi arrivato in città, indicandogli il mio hotel e il numero della mia carta sim nigeriana. Così feci.
E mi misi in attesa. (…) La sera del terzo giorno la chiamata arrivò: “Sono il tuo autista, tra un’ora sono lì”. Un ragazzo basso e ben vestito si presentò alla porta dell’albergo a bordo di una Toyota corolla. Disse di chiamarsi Anthony e non aggiunse altro. Poi mi passò il telefono: “Sono Gbomo”. Il capo senza volto dei guerriglieri del Delta si materializzò dall’altra parte della linea in una voce profonda, quieta e posata al tempo stesso: “Ti porteranno in barca sul fiume e ti faranno incontrare i tuoi connazionali. Avrai tutto il tempo che vuoi per intervistarli. L’unica cosa che ti chiedo è di non riprendere i miei ragazzi a volto scoperto”. Poi aggiunse un ultimo avvertimento: “Se ti dovessero rapire nei prossimi giorni, di che sei un giornalista e fa’ il mio nome”. Nei mesi in cui avevo interagito per posta elettronica con il capo guerrigliero, mi ero fatto un’idea della sua personalità. Era un uomo istruito, con un’indubbia conoscenza dei meccanismi della comunicazione. Sapeva come interagire con i media; quando fare un comunicato a effetto che avrebbe guadagnato le prime pagine; sapeva come combattere la lotta di propaganda contro il governo nigeriano e l’Eni, che all’inizio volevano far passare il Mend come un gruppo di banditi che facevano proclami politici ma in realtà volevano solo soldi. (…) Sentire la sua voce baritonale, il suo inglese perfetto (così diverso dal pidgin quasi incomprensibile che parlavano tutti in città), le sue spiegazioni dettagliate mi rassicurarono profondamente. Attaccai e seguii il mio accompagnatore. Scendemmo dalla macchina e camminammo per una mezz’ora attraverso una bidonville ipertrofica, tra acquitrini fetidi e vialetti pestilenziali. Poi ci imbarcammo su una speed boat. Io mi scoprivo eccitato dalla possibilità di incontrare gli ostaggi, ma tranquillo e un po’ stordito dal paesaggio infernale che mi circondava: le torce di gas che si innalzavano dalle rive e bruciavano la giungla circostante davano l’impressione di essere in un girone dantesco. Quando, dopo un’ora di viaggio, incontrai i tre ostaggi -gli italiani Francesco Arena e Cosma Russo, il libanese Imad Saliba- a bordo di una barca circondati da uomini armati, la prima cosa che notai fu la loro calma. Erano stremati dalla lunga prigionia, ma per nulla impauriti. Il loro rapporto con i ribelli non era teso, anzi. Quando un giovane guerrigliero ci intimò di parlare in inglese durante le interviste video, Arena gli rispose per le rime: “No parliamo in italiano. Questa cosa deve andare sulla tv italiana”, disse con fare perentorio, facendomi gelare il sangue nelle vene. Il ribelle, armato fino ai denti, non batté ciglio e la conversazione continuò in italiano. Nelle parole dei tre sequestrati, che lamentavano di essere stati abbandonati dal governo e dalla loro compagnia, si scorgeva un barlume di comprensione per la lotta di quei giovani armati di kalashnikov e di passamontagna, che chiedevano una più equa distribuzione dei proventi miliardari del petrolio. Rimanemmo insieme una mezz’ora. Poi il mio accompagnatore mi fece segno che era ora di andare. Mi separai da quei tre poveri cristi, pensando che tutto sommato erano lavoratori rimasti intrappolati in una guerra più grande di loro. (…) Quanto è genuina la lotta di questi nuovi gruppi? Quanto è un travestimento per occultare i vecchi vizi, il desiderio di ottenere potere, ricchezza e influenza politica? Quanto il riferimento alla miseria delle popolazioni locali è un pretesto che nasconde la volontà di inserirsi nel gioco nefasto della corruzione e dello sperpero, della tentazione del guadagno facile trasferito rapidamente in conti all’estero? Difficile dirlo, ma il mio viaggio mi ha trasmesso una certezza: i combattenti raccolgono consensi e simpatie trasversali in tutto il Delta del Niger. Il Mend sta diventando un’idea, una sigla in cui si riconoscono gruppi e persone, villaggi e famiglie delle bistrattate comunità della regione. Il Mend ha seguito perché pone un problema che è sentito da tutti: quello della distribuzione dei proventi del petrolio e dello sfruttamento indiscriminato cui le multinazionali del petrolio hanno sottoposto questa regione. La domanda è quindi quanto mai attuale: il Golfo di Guinea è destinato a diventare il “prossimo Golfo”? Gli ingredienti sembrano esserci tutti: l’interesse statunitense per un’area petrolifera più vicina alle coste americane, già esplicitato nel 2001 dal vice-presidente Dick Cheney; il rafforzamento della presenza militare americana nell’area, con la prospettiva di una possibile base sull’arcipelago di Sao Tomé e Principe, proprio di fronte alle coste nigeriane; la lotta per le risorse tra le vecchie potenze (Stati Uniti e Regno Unito in testa, ma l’Italia non è estranea al gioco, con i progetti di sfruttamento del gas nigeriano da parte dell’Eni) e l’emergente dragone cinese. Ma anche la proliferazione di gruppi ribelli più articolati e strutturati, con precise rivendicazioni politiche, che solo nell’ultimo anno hanno ridotto di 700 mila barili al giorno (sui 2,5 milioni complessivi) la produzione di greggio nigeriano. Insomma, la “mediorientalizzazione” del Golfo di Guinea è una prospettiva tutt’altro che remota. Con tutti i drammi che questa trasformazione porterà con sé.
* Stefano Liberti, redattore del “Manifesto” è l’unico giornalista ad aver incontrato in Nigeria i tecnici Agip rapiti nel 2006. L’articolo è tratto dalla prefazione al volume “Il prossimo golfo”
Dal primo giacimento al sacrificio di Ken Saro-Wiwa
Il Delta del Niger è un’enclave alluvionale alimentata da due grandi fiumi. La regione, un tempo coperta dalla foresta tropicale, è anche una terra ricca di petrolio. La Nigeria ha riserve pari a 35 miliardi di barili, un terzo delle risorse di tutta l’Africa. Ma qui la parola petrolio ha un sinonimo, Shell; la compagnia anglo-olandese controlla l’estrazione di metà del greggio nigeriano. Anche altre società occidentali (tra le quali l’Agip) sono presenti nella zona. Quasi nulla di questa ricchezza resta alle popolazioni locali, che si ribellano.
“Il prossimo golfo” ricostruisce la storia del Delta a partire dal 1956, quando la Shell ha scoperto il primo giacimento, passando per il sacrificio del leader ogoni Ken Saro-Wiwa nel 1995. Fino ai giorni nostri e alla minaccia di un nuovo intervento militare anglo-statunitense per il controllo delle risorse. “Il prossimo golfo. Il conflitto per il petrolio in Nigeria”, Terre di mezzo editore/Altreconomia, 264 p. – 14 euro