Ambiente
Mancano i soldi, e i mega progetti non si fanno più
La centrale nucleare di Belene, in Bulgaria, non si farà. Anche la mastodontica fonderia, dal costo di due miliardi di dollari, che la società Rio Tinto voleva realizzare nella regione malese di Sarawak ha subito uno stop. Due vittorie del movimento ambientalista mondiale
Il movimento ambientalista globale questa settimana può festeggiare per delle buone notizie provenienti da due diversi angoli di mondo.
La prima è che la centrale nucleare di Belene, in Bulgaria, non si farà. Ormai non ci sono dubbi, la conferma che l’impianto non vedrà mai la luce è arrivata dal vice-ministro bulgaro dell’Economia Vladislav Goranov, che ha chiarito come al suo posto sarà realizzata una centrale a gas. Il reattore nucleare già assemblato dalla russa Atomstroyexport, controllata dell’azienda atomica del Cremlino Rosatom, e in fase iniziale previsto per Belene, sarà spostato nell’altro impianto bulgaro, quello di Kozloduy.
A breve il ministro dell’Energia bulgaro, l’appena nominato Delyan Dobrev, si recherà a Mosca per formalizzare il no a Belene a Mosca, da sempre grande sponsor del progetto. Il cambiamento di piani è stato motivato dal mancato coinvolgimento di un partner europeo o statunitense, come spiegato in maniera molto esplicita dal primo ministro di Sofia Boyko Borisov in una recente intervista televisiva, soprattutto per una questioni di costi. La Russia stimava il totale di spesa intorno ai 6,3 miliardi di dollari, la Bulgaria non voleva andare oltre i 5 miliardi.
La lunga storia di Belene è punteggiata da ritardi e banche e compagnie occidentali che si sono chiamate fuori. Unicredit e Deutsche Bank si erano ritirate nel 2006, la società elettrica tedesca RWE nel 2009, mentre Enel aveva negato qualsiasi interessamento al progetto nel maggio 2010, quando il primo ministro Borisov in visita ufficiale in Italia invece aveva ventilato l’ipotesi che l’impresa italiana potesse essere coinvolta.
Dopo il disastro di Fukushima dell’11 marzo 2011, la Commissione europea aveva manifestato la concreta intenzione di riesaminare il progetto, sebbene lo avesse già approvato nel 2007. Tra le criticità, oltre alle questioni meramente commerciali, c’era la vicinanza a una zona altamente sismica, un fattore da valutare con maggiore attenzione rispetto al passato.
Un altro aggiornamento molto positivo giunge dalla regione malese di Sarawak. In quelle terre lontane il gigante anglo-australiano del settore estrattivo Rio Tinto avrebbe dovuto mettere in piedi una mastodontica fonderia, dal costo di due miliardi di dollari. Ma la compagnia ha appena comunicato che non se ne farà più nulla. L’impianto avrebbe dovuto utilizzare l’energia prodotta dalla vicina centrale idroelettrica di Bakun.
Il progetto è saltato proprio perché non è stato raggiunto un accordo sui costi di fornitura energetica – un elemento fondamentale per un’opera molto energivora come una fonderia di grandi dimensioni – e di conseguenza pure sul mega sbarramento ormai si addensano nubi molto fosche. Gli ambientalisti locali hanno accolto con grande soddisfazione la notizia, visto che da anni si battono contro la realizzazione della diga, invece sostenuta con forza dalle autorità di Sarawak. La famiglia del capo del governo locale, Abdul Taib Mahmud, detiene infatti forti interessi economici nel controverso progetto di Bakun.
Qualora si andasse avanti con i lavori, ci sarebbero manifesti impatti ambientali in una zona molto ricca di biodiversità, ma già allo stato attuale ci sono accuse di violazione dei diritti umani delle comunità (soprattutto tramite la sottrazione di terre), appropriazione di fondi pubblici, abuso d’ufficio, frode e riciclaggio di denaro. Proprio per queste ragioni, lo scorso dicembre i gruppi locali, ma anche alcuni europei e australiani, avevano chiesto l’arresto di Taib.