Ambiente
Mais per non perdere l’auto
Viaggio nel Midwest degli Stati Uniti: dai campi destinati ad alimentare motori alla Borsa di Chicago, dove si decidono i prezzi del cibo destinato agli uomini
“L’Iowa è il Kuwait americano, noi siamo gli arabi del Midwest”. Dean Taylor ha il sorriso dell’uomo appagato mentre affonda le mani nel rimorchio del suo camion, pieno fino all’orlo di lucenti chicchi di mais, che diventeranno carburante per i motori americani. “È una fonte d’energia straordinaria: ne abbiamo in abbondanza e non dobbiamo più dipendere dai Paesi petroliferi, che sono quasi sempre anche nostri nemici”.
Nell’Iowa, Stato granaio del Midwest e nuovo centro nevralgico della produzione Usa di agrocarburanti, tutti ripetono lo stesso ritornello: “L’etanolo è verde, rinnovabile
e soprattutto americano”. Tra i membri della Iowa Corn Growers Association, di cui Taylor è presidente, la frase ha il sapore dello slogan consolidato. Cappellini e magliette con lo stemma della loro organizzazione, sacchetti pieni di mais tostato da offrire a chiunque capiti a tiro, gli agricoltori sono riuniti per l’evento dell’anno: la Indy Corn Race, corsa di Formula Uno disputata con macchine interamente alimentate a bioetanolo. I bolidi sfrecciano sulla pista a duecento all’ora, accompagnati dalle urla di un telecronista sovraeccitato che ogni tre frasi esalta la potenza di fuoco del nuovo carburante. Migliaia di spettatori che sventolano bandierine, uomini sandwich vestiti da pannocchie, stand fantascientifici: la corsa è un momento di svago, ma è anche un’occasione per diffondere il credo dei bio-fuel, “unica alternativa alla schiavitù del petrolio e alla dipendenza energetica”. Un discorso cui i consumatori statunitensi, che hanno visto triplicare i prezzi della benzina negli ultimi tre anni, sono sempre più sensibili. Per loro gli agrocombustibili sono un’illusione che mette a posto la coscienza: di fronte alla crisi energetica ridurre l’uso dell’auto non è un’opzione gradita.
Nello Iowa, il “Kuwait americano”, stanno spuntando come funghi fabbriche di bioetanolo, finanziate da grandi gruppi industriali ma anche da cooperative di agricoltori, che hanno fiutato l’affare e raccolto il capitale necessario per avviare l’attività. In tutto lo Stato ce ne sono 22 in funzione,
altre venti sono in costruzione. A West Burlington, paesetto sonnacchioso a poca distanza dal fiume Mississippi, che qui segna il confine con l’Illinois, ha sede una delle più grandi: un complesso di migliaia di metri quadri, che spicca maestoso in mezzo al verde dei campi circostanti. Una teoria ordinata di camion aspetta di scaricare i chicchi di mais in un deposito, da cui verranno prelevati per creare -dopo un complesso processo di raffinazione- il prezioso carburante. Ray Defenbaugh è il direttore esecutivo della fabbrica.
Lunga barba bianca, fisico imponente, due occhi accesi da un’intelligenza vivace, l’uomo è da sempre un fan degli agrocarburanti. Per fugare ogni dubbio, mostra orgoglioso il suo maggiolone Volkswagen, la cui targa d’immatricolazione è una sequela di sette lettere: “Ethanol”.
“La fabbrica produce cento milioni di galloni l’anno, destinati a tutto il Midwest. Abbiamo aperto nel 2005 e da allora continuiamo ad aumentare il fatturato. Siamo una piccola cooperativa di proprietari terrieri e di piccoli investitori della regione. Qualche anno fa ci siamo messi insieme e abbiamo deciso che valeva la pena lanciarsi in questa avventura”, racconta pettinandosi la barba.
La corsa all’etanolo è stata lanciata ufficialmente dal presidente George W. Bush nel discorso sullo Stato dell’Unione del 2006. Su consiglio del fratello Jeb, ex governatore della Florida e strenuo sostenitore degli agrocarburanti, l’attuale inquilino della Casa Bianca ha stretto un’alleanza con il Brasile, che produce etanolo dalla canna da zucchero fin dagli anni 70. Si è incontrato a più riprese con il presidente Lula e ha lanciato con Brasilia un asse continentale sulle fonti di energia rinnovabili, tra i cui obiettivi c’è anche l’esigenza di mettere all’angolo il Venezuela petrolifero di Chavez. La politica pro-etanolo, sostenuta dai sussidi pubblici che vengono erogati nell’ordine di 51 centesimi al gallone e dall’obiettivo di aumentare entro il 2012 a 7,5 miliardi di galloni annui la quantità di agrocarburanti da utilizzare negli Stati Uniti, ha ridato fiato ai produttori di mais americani.
È finita l’epoca in cui si lavorava in perdita: oggi, il cereale si vende a circa 7 dollari al bushel (l’unità di misura usata per le granaglie negli Usa, pari a circa 27 kg), tre volte tanto rispetto a tre anni fa.
Le sue quotazioni alla Borsa di Chicago sono in crescita costante, come quelle di tutte le commodity alimentari (grano, soia, riso: vedi pagina 16). Una progressione che ha spinto molti a individuare nella politica Usa in favore dell’etanolo una delle principale cause dell’impennata dei prezzi del cibo nel mondo. L’ex relatore speciale per il diritto all’alimentazione delle Nazioni Unite, Jean Ziegler, ha definito gli agrocarburanti “un crimine contro l’umanità” e chiesto una moratoria mondiale di cinque anni sulla loro produzione. Il suo successore Olivier de Schutter ha esortato l’Unione europea e gli Usa a rivedere al ribasso i rispettivi obiettivi di utilizzo (l’Ue si è data il traguardo di un 10 per cento di bio-carburanti entro il 2020, vedi box a pagina 17). La Banca mondiale, in un recente rapporto confidenziale pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian, ha sostenuto che gli agrocarburanti sono responsabili per l’85% della crisi alimentare.
Defenbaugh respinge tutte queste critiche. “In realtà l’aumento dei costi è determinato dal prezzo del petrolio e dai meccanismi di distribuzione”, puntualizza.
Intanto, negli Stati Uniti si sta scavando un divario tra i coltivatori -ben felici di veder aumentare i propri profitti- e gli allevatori, che hanno visto schizzare alle stelle il costo dei mangimi. Il governatore del Texas, Rick Perry, ha inviato una lettera al presidente Bush chiedendo di eliminare i sussidi alla produzione di etanolo. Ma i produttori dello Iowa non si fanno intimidire. Accusano grandi attori internazionali di essere dietro questa offensiva contro di loro: in particolare, le compagnie petrolifere, che vedono a rischio il loro monopolio sull’energia. “Dicono che l’etanolo
non è efficiente. Che i costi di produzione sono più alti dei ricavi. Se fosse vero, non si spiegherebbe perché siamo ancora in attività”, si infiamma Dafenbaugh. “Né si spiegherebbe perché tutti stanno costruendo fabbriche di etanolo, non solo nel Midwest, ma ormai in tutti gli Stati Uniti, dallo Stato di New York alla California”.
La politica dei sussidi in effetti non favorisce direttamente i produttori, ma le compagnie che vendono il carburante alla pompa. Ma i rapporti di causa-effetto sono spesso difficili da governare: i sussidi fanno aumentare la domanda; l’aumento della richiesta fa aumentare le superfici coltivate a mais a scapito di altre colture, facendo aumentare i prezzi di tutti gli altri prodotti agricoli; i Paesi importatori soffrono dell’aumento dei prezzi; le popolazioni del terzo mondo boccheggiano e manifestano per strada. Dafenbaugh non respinge questo ragionamento. Ma la sua risposta ha la forza della considerazione finale: “L’America ha invaso l’Iraq per avere il petrolio. Qui nell’Iowa c’è una fonte d’energia a disposizione. E nemmeno dobbiamo mettere i soldati a proteggere i campi”. Almeno per ora.
La borsa della fame
L’urlo arriva come un boato. Sono le 9.30 in punto e, al suono della campanella, un esercito di trader vestiti con camicioni lunghi di cotone che sembrano grembiuli si lancia intorno ai “pits”, i pozzi in cui vengono raccolte le ordinazioni. Fino a un minuto prima, stavano tranquillamente chiacchierando. Ora sono iene lanciate sulla preda. È in questa stanza del Chicago Board of Trade (nella foto) che si decidono le quotazioni dei grain, i prodotti agricoli fondamentali per l’alimentazione mondiale: mais, soia, grano, riso, zucchero e via dicendo. Quello che succede in questa sala ha conseguenze gigantesche su buona parte della popolazione del pianeta. È da qui che concretamente è partita l’onda anomala della crisi alimentare che ha infiammato le piazze del Sud del mondo.
È qui che si è stabilito che il prezzo del pane sarebbe raddoppiato e quello del riso triplicato. Sempre più nell’occhio del ciclone, i broker di Chicago -accusati di speculare sui generi alimentari e quindi sulla vita delle persone- si difendono: “Non esiste alcuna bolla speculativa. Noi misuriamo semplicemente la temperatura del mercato. Se prevediamo che la richiesta sarà maggiore dell’offerta, noi compriamo, perché riteniamo che i prezzi siano destinati a salire”, racconta Vic Lespinasse, del gruppo Cytrade Futures, un veterano del grain floor dove è arrivato nei primi anni 70 con una laurea fresca in economia. “Il mais e la soia sono aumentati anche in ragione del loro utilizzo per i bio-carburanti, ma non solo: ci sono stati cattivi raccolti e c’è un aumento di richiesta da parte di Paesi emergenti, come Cina e India, le cui popolazioni stanno modificando le proprie diete e stanno incrementando il consumo di carne”.
Dietro a Lespinasse, un grande schermo indica le previsioni del tempo in tutto il mondo: le alluvioni del Midwest americano hanno rovinato i raccolti e fatto salire ulteriormente il valore del mais. Il cereale ha raggiunto la cifra record di 7,20 dollari al bushel. Stesso andamento per la soia, per il riso e per il grano. “Non credo che i prezzi scenderanno nel breve periodo”, continua l’analista. “Al massimo si stabilizzeranno”.
La Borsa si basa sul meccanismo dei future, contratti di acquisto a consegna procrastinata a sei mesi. Nato per proteggere l’acquirente e il venditore dalle fluttuazioni del mercato, il sistema dei future è stato sfruttato dagli speculatori, che comprano e rivendono prima della scadenza in funzione del valore raggiunto. “Solo l’1 per cento dei future si conclude effettivamente con la consegna”, stima Patrick Arbor, che del Board of Trade conosce ogni segreto, essendo stato per sei anni il suo direttore. Nel suo studio al secondo piano dell’edificio, analizza il trend del mercato per una società di consulenza che ha aperto da un paio d’anni. “Quella degli agrocarburanti è una politica sbagliata: con i suoi sussidi, il governo federale sta spingendo gli agricoltori a coltivare mais destinato all’etanolo invece che al cibo”, si infervora Arbor. Che però aggiunge: “È facile scaricare la responsabilità sugli speculatori di Chicago, come fanno alcuni. La verità è che esiste una parte di speculazione, ma questa influisce in misura minima sul funzionamento dei mercati. Se fossimo in presenza di una bolla speculativa, questa sarebbe già scoppiata”. Le analisi sulle ragioni della crisi alimentare sono variegate e difformi: c’è chi imputa tutte le colpe agli sciacalli di Chicago e agli speculatori che, scottati dalla crisi dei mutui subprime, investono sulle materie prime agricole; chi parla di cause congiunturali -cattivi raccolti, carestie, alluvioni- o strutturali (l’aumento del consumo di carne da parte di Paesi come India o Cina); e chi punta il dito contro l’etanolo e gli agrocarburanti. Ma queste ultime critiche vengono fatte solo a mezza bocca. Siamo pur sempre a Chicago, nel cuore del Midwest e un discorso del genere non è molto popolare.
È una questione di scorte
“Esiste ormai una competizione tra i poveri affamati del Sud e gli automobilisti del Nord”. Lester Brown (foto) è uno degli ambientalisti più autorevoli e più ascoltati a livello mondiale. Direttore dell’Earth-Policy Institute, organizzazione no profit di Washington il cui obiettivo è “elaborare un piano per un futuro sostenibile”, è l’autore del recentissimo Piano B 3.0. Mobilitarsi per salvare la civiltà (Edizioni Ambiente).
Lei ha criticato ferocemente gli incentivi alla produzione di etanolo da parte degli Usa. Può spiegare perché?
Lo spostamento del mais sulla produzione di etanolo sta generando un problema di carattere mondiale. Quest’anno, nel Midwest americano, un quarto dei 400 milioni di tonnellate di produzione di mais è stato destinato a un uso non alimentare, energetico. Questo ha provocato uno squilibrio, dal momento che sono diminuite le scorte. Negli ultimi 8 anni, ben sette hanno registrato un deficit nella produzione di cereali, e le riserve mondiali sono scese al livello più basso degli ultimi 34 anni. Così, i prezzi sono schizzati verso l’alto. Negli ultimi due anni, al Chicago Board of Trade, dove si stabiliscono i prezzi dei generi alimentari, il mais ha visto più che raddoppiare le proprie quotazioni. La principale ragione di questo aumento è una sola: l’euforia per l’etanolo che ha colpito i produttori del Midwest, anche grazie ai generosi sussidi del governo federale.
Perché secondo lei l’amministrazione Bush sponsorizza in modo così convinto la produzione di etanolo?
In primo luogo ci sono le pressioni delle lobby agricole del Midwest, che hanno un peso elettorale non indifferente.
In secondo luogo, c’è il discorso delle indipendenza energetica, cui gli americani sono molto sensibili. Con l’aumento del prezzo del barile, e quindi della benzina, l’incremento della produzione di etanolo è presentato come un modo per diminuire la dipendenza Usa dal petrolio. Dopo il fallimento in Iraq, Bush si è convertito a quella che definisce una fonte di energia non solo rinnovabile, ma soprattutto americana.
Il discorso della sovranità energetica può avere qualche fondamento?
Assolutamente no. Bisogna considerare che, qualora tutta la terra coltivabile negli Usa fosse destinata a produrre mais per etanolo, si riuscirebbe a soddisfare appena il 16% della richiesta di carburanti da parte dei consumatori statunitensi. Bisogna poi aggiungere che il bilancio energetico dell’etanolo
è bassissimo: per ogni unità di energia consumata per la produzione, se ne ricavano appena 1,3 unità.
In che misura, la corsa all’etanolo alimenta la speculazione finanziaria?
È impossibile separare la speculazione dall’andamento reale dei mercati. I broker comprano mais o soia, perché sanno che le scorte sono a un livello bassissimo e che il prezzo è destinato ulteriormente a salire. Il fatto che questi due prodotti siano usati per i carburanti (mais per l’etanolo e soia per il biodiesel) crea poi un ulteriore effetto “chiamata” per gli speculatori.
Che, secondo me, si limitano a esacerbare una situazione difficile, ma non sono la principale causa degli aumenti.
Un asse tra usa e brasile sugli agrocarburanti
Lanciata in pompa magna nel dicembre 2006, la Commissione interamericana per l’etanolo, con sede in Florida, si propone di “trasformare l’America latina e i Caraibi nel Golfo Persico degli agrocarburanti”. I co-fondatori sono Jeb Bush, ex governatore della Florida e fratello del presidente Usa, Roberto Rodrigues, ex ministro dell’Agricoltura brasiliano, e Luis Alberto Moreno, presidente della Banca interamericana di sviluppo. Grazie ai buoni uffici della Commissione, Lula e George W. Bush (nella foto), nel 2007, hanno firmato un’alleanza sugli agrocarburanti, che prevede investimenti comuni per la produzione di etanolo in Centro America. Ciò non impedisce ai due alleati di rimanere avversari commerciali: gli Usa, per proteggere il loro etanolo prodotto dal mais, impongono un dazio esorbitante (54 cent al gallone) all’etanolo prodotto in Brasile.
Gli ingredienti dell’etanolo e del biodiesel
Non c’è solo l’etanolo prodotto dal mais nel Midwest americano nel vasto panorama dei cosiddetti agrocarburanti. Diverse colture possono essere usate per produrre combustibile:
in Brasile, da 35 anni a questa parte (da quando cioè è stato lanciato dalla giunta militare il programma “Pro Alcool”), si produce etanolo a partire dalla canna da zucchero (foto). Quasi tutte le vetture in commercio sono flexi, hanno cioè un serbatoio adatto sia per la benzina che per l’etanolo. In alcune zone -in particolare nello Stato di Sao Paulo-
il panorama è un’unica distesa verde di monocolture di canna, interrotta solo dalla ciminiere delle raffinerie di etanolo. In Indonesia e Malaysia si produce biodiesel a partire dall’olio da palma. Ma il biodiesel può essere fatto anche a partire dalla soia o dalla jatropha, una pianta adatta a terreni semi-aridi la cui coltivazione si sta diffondendo in Africa.
Le banche hanno scelto i bio-fuel
Europa divisa sugli agrocarburanti. Con la Direttiva europea sull’utilizzo di fonti di energia rinnovabile, del gennaio 2007, Bruxelles si è data l’obiettivo di sostituire con i bio-fuel il 10% dei combustibili utilizzati nei trasporti. La commissione Ambiente del Parlamento ha però ridimensionato la proposta, invitando la Commissione a portare al 4%, entro il 2015, il tasso di sostituzione. Chi ha invece idee chiare sugli agrocarburanti sono le banche, italiane ed europee. Secondo un rapporto di Friends of the Earth, molte stanno finanziando l’espansione del mercato degli agrocarburanti in America Latina. Tra le italiane, Intesa-Sanpaolo, Unicredit, Monte dei Paschi di Siena e la Banca della Marche. Dei capitali italiani hanno beneficiato Agrenco, multinazionale brasiliana della soia e del biodiesel (agrencogroups.com), e Bunge, il più importante mercante di soia dell’America latina (bunge.com). lm