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Ambiente

L’oasi fa i conti col carbone

Dopo anni di incertezze, il ministero dell’Ambiente autorizza Enel a riconvertire la centrale di Porto Tolle. Una scelta discussa e poco efficiente Chissà se Stefania Prestigiacomo è mai passata da queste parti. Il ministro dell’Ambiente, abituata al mare della sua…

Tratto da Altreconomia 108 — Settembre 2009

Dopo anni di incertezze, il ministero dell’Ambiente autorizza Enel a riconvertire la centrale di Porto Tolle. Una scelta discussa e poco efficiente

Chissà se Stefania Prestigiacomo è mai passata da queste parti. Il ministro dell’Ambiente, abituata al mare della sua Siracusa, forse non ha mai visto il Delta del Po. Si sarebbe trovata davanti uno spettacolo unico: un complesso di zone umide di oltre 12mila ettari, un irreale paesaggio in apnea tra terra e acqua, terra salata rubata al mare col lavoro dell’uomo.
Però il ministro sa che qui Enel vuol far funzionare una centrale a carbone. In questo labirinto d’acqua adornato da statice, limonio, salicornia e giuncheti; in questa terra di confine popolata da cefali, triglie (pesci di mare) così come da carpe e pesci gatto (d’acqua dolce), il cui cielo è solcato da aironi cenerini; qui, in un parco riconosciuto patrimonio dell’Unesco e Sito di interesse comunitario.
Lo sa perché lei, il ministro, a metà luglio, ha detto “sì, si può fare”. La storia della centrale termoelettrica di Polesine Camerini, frazione di Porto Tolle, in provincia di Rovigo, inizia nel 1984. Si tratta di un gigantesco impianto (nella foto sopra, mentre sotto c’è un rendering di come sarà) a olio combustibile che un incauto governo piazza in questo piccolo paradiso terrestre. La centrale inquina molto e per questo, dopo una dozzina d’anni di servizio, viene messa sostanzialmente in stand-by e usata sporadicamente. In particolar modo quando, nel 1997, la Regione Veneto istituisce con una legge regionale il Parco naturale del Delta del Po, che vieta espressamente, all’articolo 30, che al suo interno vi operino centrali più inquinanti di una a metano. Nel 2005 la svolta: Enel propone la conversione della centrale, prima progettando di utilizzare orimulsion (un sottoprodotto del petrolio), poi proponendo il carbone. La crisi energetica è alle porte e l’ex monopolista sa guardare avanti. Dopo vari incontri, poco prima di Natale il governatore veneto Giancarlo Galan si accorda con l’ad Fulvio Conti per una centrale più piccola, in cambio della realizzazione della quale l’azienda si impegna a chiudere la Porto Tolle entro il 2030, a “valorizzare l’imprenditoria veneta” e a finanziare la creazione di un osservatorio ambientale con un milione di euro. L’affare non è da poco: il progetto prevede 2,2 miliardi di euro di investimenti (alla fine la centrale avrà una potenza di 1.980 MW). La promessa sono migliaia di posti di lavoro, e il Parco è il problema da risolvere.
Da allora scattano le proteste di ambientalisti e popolazione locale. Nel progetto di Enel si parla di 3mila chiatte che ogni anno porteranno il carbone attraverso i canali del Parco (da Porto Levante, attraverso la biconca di Volta Grimana, Po di Venezia e Po della Pila, oppure passando da Busa di Tramontana, e in alternativa dalla laguna di Barbamarco) fino ai giganteschi carbonili (dome) della centrale, 40 camion al giorno per trasportare lontano ceneri e gessi di risulta della combustione. Una batosta per il parco. Senza contare che il carbone è il peggior nemico del clima, e questo ormai lo sanno anche alle elementari (vedi Ae 86). A nulla valgono le rassicurazioni di Enel, che promette impianti di ultima generazione ed emissioni inferiori rispetto a quelle della centrale a olio. Ma questo è il minimo: per l’inquinamento prodotto da Porto Tolle, nel 2006 Enel era stata condannata per disastro ambientale, condanna poi confermata in appello a marzo 2009.
Dopo anni di stallo e incertezza, le cose cambiano ad aprile 2009: con una mossa a sorpresa, il governo vota con la fiducia il decreto anti crisi di febbraio (quello con gli incentivi a frigoriferi e auto), che viene convertito in legge il 9.
Al suo interno, l’articolo 5 bis dice esplicitamente che si possono convertire a carbone centrali elettriche “in deroga a leggi nazionali e regionali”. Un comma che sembra fatto apposta per la centrale di Porto Tolle, e che insinua sospetti di incostituzionalità, visto lo scavalcamento palese della volontà regionale. Con un tempismo perfetto, poco dopo arriva anche il parere positivo della commissione per la Valutazione di impatto ambientale (Via) del ministero, che autorizza la conversione della centrale di Polesine Camerini.
A nulla valgono i rilievi della Procura di Rovigo, che dal 2008 ordina tre perizie tecniche sulla conversione. Sulla terza, consegnata al ministero proprio ad aprile, si dice esplicitamente che la conversione è da sconsigliare, poiché l’area del Delta è già fin troppo inquinata a centrale spenta. Non solo: il procuratore generale Dario Curtarello e il pubblico ministero Manuela Fasolato lamentano che Enel non avrebbe dato sufficienti garanzie in merito al rispetto delle emissioni di polveri nei fumi, avrebbe omesso di quantificare i carichi degli inquinanti in acqua, e non avrebbe previsto un dispositivo aggiuntivo per la rimozione delle emissioni in atmosfera.
I rilievi della Procura restano lettera morta, così come poco vale la clamorosa azione che Greenpeace mette in scena l’8 luglio, in pieno G8: un centinaio di attivisti occupano quattro centrali a carbone italiane (oltre a Porto Tolle, nella foto sopra, a Brindisi, Fusina e Civitavecchia) e alcuni di loro addirittura si arrampicano sulle ciminiere. Il gesto non ha i risultati sperati: i lavoratori della centrale veneta criticano aspramente gli attivisti, la giunta regionale approva la conversione, e qualche centinaio di chilometri più a Sud, a Roma, Enel firma con la Prestigiacomo e il premier Silvio Berlusconi un accordo volontario in cui si impegna a investire sulle rinnovabili, sul carbone, e a triplicare la quota di rifiuti bruciata nelle proprie centrali entro il 2013. Neanche a dirlo, Porto Tolle si candida appieno al ruolo di nuovo inceneritore.
L’ultimo capitolo è la firma che Stefania Prestigiacomo appone a metà luglio sulla Via della centrale. “Un momento significativo -pare abbia detto-, che pone fine a un caso emblematico di inefficienza della pubblica amministrazione”.

Le 12 sorelle
Sono una dozzina le centrali a carbone attualmente attive in Italia. Sette appartengono ad Enel (Brindisi Sud, Fusina, La Spezia, Genova, Sulcis, Marghera, Bastardo). Le altre sono dei tedeschi di E.on (a Fiumesanto, Sassari, e Monfalcone, Gorizia), di Tirreno Power (a Vado Ligure, Savona: è di proprietà di De Benedetti e di Acea), di Edipower (dei francesi di Edison) e di A2a (ex Aem e Asm, a Brescia Lamarmora). Nel 2007 queste centrali hanno prodotto il 14% dell’energia elettrica, ma sono state responsabili del 30% della CO2 emessa dal Paese. Sono tutte centrali che inquinano in violazione dei vincoli imposti dalle direttive europee sulle emissioni. Sono poi previste la centrale di Civitavecchia, appena convertita a carbone e prossima all’accensione definitiva, la conversione di Porto Tolle, di cui si parla in queste pagine, e la realizzazione di due nuovi gruppi a carbone a Vado (l’autorizzazione è stata data a metà luglio). Ipotizzati poi il potenziamento di Fiumesanto e del Sulcis, e la realizzazione di nuove centrali a Rossano Calabro e Saline Joniche. Il 99% del carbone che utilizziamo è importato.

Stefania si è fissata
Il ministro Prestigiacomo ha paura del nucleare. Lo ha detto in riferimento al nuovo decreto anti crisi, approvato prima delle ferie. L’articolo 4 del decreto di fatto “sopprime il ruolo del ministero dell’Ambiente” sono parole del ministro “nel delicato iter autorizzativo per la  realizzazione di centrali di produzione e per le reti di distribuzione di energia, ed esautora ogni ruolo degli enti locali”. La norma redatta dal governo di cui fa parte, rileva il ministro, potrebbe perfino applicarsi alle centrali nucleari. “Francamente mi chiedo: una norma simile a chi giova?”.
La risposta è semplice e sta nel comunicato stampa che, in contemporanea, ha fatto girare Confindustria: le misure del governo sono appropriate, si legge, e vanno viste “in una logica di sinergia e complementarietà per attuare urgentemente gli indirizzi di politica industriale”.
Mentre attendiamo che il decreto divenga legge di Stato dopo l’esame del Parlamento, il governatore Galan si è detto favorevole al nucleare, indicando proprio Porto Tolle come uno dei siti papabili per la costruzione di nuovi impianti. Il ritorno al nucleare, sancito a metà maggio con un disegno di legge sullo sviluppo, sembra sempre più probabile. Enel ha già fatto accordi con i francesi di Edf per la realizzazioni di 4 impianti, anche se finora nessuno si è pronunciato sul luogo ove sorgeranno. È in ogni caso molto probabile che i siti saranno soggetti al controllo dell’esercito e della protezione civile, come è accaduto nel caso delle discariche campane. Sull’assurdità del ritorno al nucleare si è già detto tutto (vedi Ae 88).
Qui ricordiamo solo il dato riguardante i costi: 5 miliardi di euro per una centrale da 1.600 MW, 8 volte il costo di una centrale di ugual potenza a gas.
 

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