Approfondimento
Lo smartphone e l’equo compenso
I supporti che riproducono contenuti devono riconoscere il diritto d’autore, un “equo compenso” previsto per legge. Il 20 giugno, con un anno e mezzo di ritardo rispetto al termine previsto, il governo ha stabilito gli importi, riprendendo quasi integralmente la proposta fatta nel novembre 2013 dal Comitato consultivo permanente per il diritto d’autore. L’informazione mainstream, però, continua a parlare impropriamente di "balzello"
Il 20 giugno scorso il ministro dei Beni e delle attività culturali Dario Franceschini ha firmato il decreto sul cosiddetto “equo compenso” per copia privata. I grandi quotidiani nazionali, all’unanimità, sono tornati di nuovo a parlare (e titolare) di “prelievo forzoso” dalle tasche dei consumatori (Il Fatto Quotidiano), “balzello” (la Repubblica) o di “tassa sui telefonini” (Corriere della Sera). E l’hanno fatto dipingendo la firma apposta dal ministro come una scelta e non già invece come un atto dovuto, giunto peraltro con un ritardo di un anno e mezzo rispetto al termine previsto dalla legge (31 dicembre 2012).
Come già descritto nell’articolo “Lo smartphone non paga” pubblicato nel numero di febbraio di Altreconomia, l’ormai celebre “equo compenso” -a proposito di smartphone e tablet- altro non è che il contributo che le multinazionali dei dispositivi (device) sono tenute -per legge- a riconoscere a chi assicura contenuti e sostanza a un apparecchio di per sé vuoto. La Società italiana degli autori ed editori (Siae) -sempre per legge- riscuote e ripartisce l’ammontare ad autori, produttori, editori e interpreti.
All’epoca dell’approfondimento del febbraio 2014 le tariffe erano ancora bloccate al 30 dicembre 2009, a quando cioè, con cadenza triennale, il soggetto chiamato a stabilire l’importo dell’equo compenso (il ministero oggi retto da Franceschini) l’aveva fatto con apposito decreto.
A godere delle incertezze e dei ritardi sono stati soprattutto i grandi produttori, che nel nostro Paese commercializzano apparecchi a prezzi assolutamente più alti rispetto a Francia e Germania, ad esempio, dove però il presunto “balzello” è ben più incisivo. Prima del decreto Franceschini, infatti, il compenso posto sul prezzo di un iPhone 5S venduto in Italia ammontava a 0,9 euro. In Francia era (ed è rimasto) di 8 euro e in Germania di 36.
A chi oggi lamenta l’inatteso “balzello” è utile segnalare il “parere concernente la rideterminazione dei compensi per copia privata” formulato dalla vera “fonte” dell’esecutivo, che non è la Siae -come impropriamente riportato da alcuni quotidiani-, bensì il Comitato consultivo permanente per il diritto d’autore, che ne spedì il testo al ministero -allora retto da Massimo Bray- il 5 novembre 2013.
Chi lo dovesse riprendere si renderebbe conto che la proposta del Comitato è stata sostanzialmente raccolta nella sua integrità dal governo (dalla tariffa per cd e dvd a quella per memorie e hard disk integrati), eccetto alcuni passaggi. Tra questi, proprio le tabelle dedicate a smartphone e tablet.
Per i due tipi di dispositivi i membri del Comitato consultivo permanente per il diritto d’autore avevano proposto a novembre 2013 un “compenso fisso” di 5,2 euro, indipendentemente dalla capacità di archiviazione degli apparecchi.
Il decreto Franceschini, invece, ha differenziato gli importi, collocandoli tra i 3 euro per i dispositivi dotati di capacità “fino a 8 GB”, i 4 euro per quelli compresi tra 8 e 16 GB, i 4,8 euro per quelli tra 16 e 32 GB e infine i 5,2 euro per quelli oltre i 32 GB -il famoso aumento del 477% riportato dai giornali citati-.
(la tabella tratta dal decreto sul "compenso per la riproduzione privata di fonogrammi e videogrammi" firmato dal ministro Franceschini lo scorso 20 giugno)
L’incremento, quindi, oltreché necessario era del tutto annunciato e già adeguatamente ponderato.
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Lo smartphone non paga – Altreconomia 157, febbraio 2014
L’“equo compenso” riguarda chiunque possieda uno smartphone, anche se non lo sa. Del resto, non si vede ad occhio nudo: se l’apparecchio fosse un nuovo iPhone 5S -da 729 euro-, rappresenterebbe appena lo 0,12% del prezzo. L’“equo compenso” è il contributo che -per legge- le multinazionali dei device sono chiamate a corrispondere a chi garantisce contenuti a un dispositivo altrimenti ben più arido. Un principio a garanzia del diritto d’autore (sancito fin dal 1941) che fatica a trovare piena applicazione. Facciamo un passo indietro: nel nostro Paese la riproduzione privata di “fonogrammi e videogrammi” è consentita su qualsiasi supporto o dispositivo, a patto che questa azione sia priva di qualsiasi scopo di lucro o fini “direttamente o indirettamente commerciali”. A ribadirlo è stato il decreto legislativo 68 del 2003, che in attuazione di una direttiva del Parlamento europeo (la 29 del 2001) è andato a innovare la legge italiana del 1941 sulla “protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”. Da quella “riproduzione privata” -meglio conosciuta come “copia privata”- deriva un diritto, che è in capo agli autori e produttori di “fonogrammi e videogrammi”, che non è altro che il compenso dovuto a riconoscimento della loro attività intellettuale o artistica: tutto questo si chiama “equo compenso”. Il primo anello della catena è rappresentato da chi paga: l’acquirente, il consumatore, colui che compra il dispositivo -ad esempio, uno smartphone o un giradischi-. Dopodiché il rivenditore, e cioè il produttore dello smartphone (Samsung, Apple, Microsoft), corrisponde il dovuto a chi per legge è demandato alla riscossione -la Società italiana degli autori ed editori (Siae), ente pubblico istituito nel 1882- il quale a sua volta lo ripartisce ad autori, produttori, editori e interpreti. Nel 2012, per intendersi, l’incasso lordo effettuato da Siae è stato pari a 72,4 milioni di euro (-14,3% rispetto al 2011), 67,3 dei quali da “ripartire o accreditare” agli aventi diritto. Chi è chiamato a stabilire l’importo dell’equo compenso, che non è una tassa e non va all’erario, è il ministro dei Beni culturali, che ogni tre anni -dopo aver raccolto il parere del Comitato consultivo permanente per il diritto d’autore, introdotto già dal 1941 in seno all’allora “ministero della cultura popolare”- emana il cosiddetto “decreto di determinazione del compenso”.
Da ottobre 2013, però, l’espressione “copia privata” ha fatto irruzione nel dibattito politico e giornalistico italiano. Il motivo è semplice: l’ultimo decreto risale al 30 dicembre 2009, quando ministro era Sandro Bondi. Dunque, tenendo la legge in un mano -il termine, come detto, è triennale- e il calendario in una mano -la scadenza era al 31 dicembre 2012-, il nostro Paese si ritrova in flagrante ritardo. Ritardo che è poi aggravato dalla rivoluzione digitale avvenuta dal 2009 ai nostri giorni, con l’esplosione delle vendite di smartphone e tablet. Secondo la società di analisi International Data Corporation, infatti, nel 2013 in Italia sono state consegnate 25 milioni di unità (tra pc, tablet e smartphone) per un volume d’affari per oltre 8 miliardi di euro, in crescita del 14,8% rispetto al 2012. A dettare legge sono Samsung, Apple, Nokia e Lg.
Tra le misure contenute nel “decreto Bondi” erano fissati gli importi per ciascuna tipologia di supporto. Dai 23 centesimi per ogni ora di registrazione da parte di “supporti audio analogici” ai 22 centesimi per ogni ora su cd. Dai 29 centesimi -per la stessa durata- su videocassette ai 41 centesimi per ogni 4,7 gigabyte su dvd ram. E, sempre in centesimi, dai 9 per ogni chiavetta Usb con memoria superiore a 4 gigabyte a un centesimo per ogni hard disk esterno con più di 400 Gb per archiviazione. In questa materia, però, il riferimento all’anno 2009 risulta lontano, data l’evoluzione dell’offerta. E per saggiare l’inadeguatezza del decreto Bondi basta leggerlo attentamente. Chi volesse individuare il supporto “smartphone” o “telefono” resterebbe deluso. Eppure, come certificato da Siae, le abitudini dei consumatori in questi anni sono radicalmente cambiate. Dvd e cd sono crollati del 44% in tre anni mentre il ricorso a “device multifunzionali” che consentono anche l’ascolto di musica o la visualizzazione di filmati è cresciuto al 2012 del 16%. Basti pensare che nel terzo trimestre del 2013 sono stati venduti 3,8 milioni di smartphone solo nel nostro Paese.
È in forza di queste considerazioni che è stato nuovamente avviato l’iter per giungere all’aggiornamento delle misure del 2009. Come previsto dalla legge, dunque, il Comitato consultivo permanente per il diritto d’autore presieduto da Paolo Marzano è stato incaricato dal ministro competente Massimo Bray di formulare una proposta di “aggiornamento” del decreto risalente al 30 dicembre 2009. Tra le misure più significative c’è il compenso fisso di 5,2 euro per smartphone e tablet, in netto rialzo rispetto al forfettario (e bloccato) importo di 0,9 euro. Ennesimo “balzello”, ha denunciato Altroconsumo, prestando la sua voce al coro di chi ha trasformato un compenso dovuto (da pochi) per legge in un danno alla tecnologia e alla conoscenza, nonché degli interessi (o delle tasche) del consumatore. Opposizione che peraltro ha determinato un’inerzia tutta a vantaggio delle (grandi) aziende produttrici di dispositivi mobili quali smartphone, pc, tablet e hard disk -a scapito di chi, come sostiene il presidente della Confederazione internazionale delle Società degli autori, Jean Michel Jarre, produce “l’unica cosa che c’è di smart in un telefono”, o in qualunque altro dispositivo: i contenuti-.
È guerra. Il Corriere della Sera del 15 dicembre titola “Tassa sugli smartphone, la Siae si scrive il decreto”, e nell’occhiello mette in guardia: “Rischio aumenti del 500% anche per i tablet. Tra i nuovi prodotti, colpite la smart tv”. Il Sole 24 Ore del 21 dicembre denuncia le “troppe tasse su internet”, dove ricadrebbe anche la rimodulazione dovuta per legge dell’equo compenso. Anche il presidente di Confidustria digitale, Stefano Parisi, dal blog formiche.net, si schiera contro “l’atteggiamento di ostilità di un certo mondo della cultura”, in forza di un dato di fatto: “La copia privata è in disuso”. Allargando la prospettiva all’estero, però, questa prassi pare tutt’altro che desueta. L’ultima indagine internazionale sulla copia privata condotta nel 2011 dall’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale (www.wipo.int) e pubblicata nel 2012 ha preso in esame tipologia e applicazione del compenso in 42 Paesi del mondo. Di ciascuno, ha valutato anche l’impatto complessivo della raccolta aggregata suddividendola per la popolazione, in modo tale da avere un indicatore simbolico del “peso” pro capite, fotografando l’Italia (0,85 euro) dietro a Danimarca (0,91), Svizzera (1,55), Spagna (1,77), Germania (2,97) e Francia (2,99).
Il compenso che ad oggi (metà gennaio 2014) “incide” sul prezzo di un iPhone 5S venduto in Italia, come detto, è di 0,9 euro. Per lo stesso prodotto, il compenso è di 8 euro in Francia (più 788%) e ben 36 in Germania (più 3.900%). Provando ad acquistare online un iPhone 5S da 16 Gb, però, il prezzo italiano (729 euro) è superiore sia a quello francese (709 euro) sia a quello tedesco (699 euro) -tenendo presente che l’imposta sul valore aggiunto è rispettivamente del 22, 20 e 19 per cento-. Nel resto d’Europa non prevedono l’istituto dell’equo compenso per copia privata Cipro, Irlanda, Lussemburgo, Malta e il Regno Unito. A differenza di quanto scritto o sostenuto, né la Francia -che ha esentato dal versamento gli acquirenti di supporti digitali per uso professionale- né la Spagna -dove il compenso non è più in capo a produttori e importatori ma al Governo- hanno abolito il compenso. Bray deciderà a fine gennaio, dopo aver preso visione dello studio ministeriale sullla propensione dei consumatori all’utilizzo dei device. Nelle more, i produttori ringraziano. —