Ambiente
L’Italia non disarma i bracconieri
Chi uccide illegalmente un animale ma ha una licenza e un permesso di caccia può continuare a sparare, pagando solo un’ammenda. In attesa di un bilancio delle attività illegali durante la stagione venatoria 2014/2015, arriva l’ennessima denuncia dal Parco nazionale di Abruzzo, Lazio e Molise
La stagione venatoria in lombardia si è aperta il 21 settembre 2014, e nel solo mese di ottobre sono stati denunciati per bracconaggio 58 cacciatori. In una settimana, tra il 25 ottobre e il 2 novembre, le Guardie Giurate Volontarie del Wwf Italia, nell’ambito della campagna “Stop ai crimini di natura”, hanno denunciati 18 persone nelle province di Brescia, Milano e Pavia. Perché il bracconaggio esiste anche in Italia, e non è solo quello della caccia al rinoceronte, nei Safari africani: nel 2013, secondo i dati del Corpo Forestale dello Stato, sono stati accertati 732 reati, e ci sono stati 674 sequestri, 89 perquisizioni, 2 arresti e 1.631 illeciti amministrativi, per un totale di 258.635 euro di multe. Queste cifre testimoniano l’impegno costante del Corpo Forestale dello Stato, ma sottolineano quello che associazioni come Lav, Lipu e Wwf denunciano da tempo, cioè l’inadeguatezza delle sanzioni, soprattutto di quelle che vengono applicate ai bracconieri che sparano con una regolare licenza di caccia.
“È un errore comune -spiega Claudio Marrucci, responsabile del Nucleo Investigativo Antibracconaggio del Corpo Forestale dello Stato– quello di ritenere che il bracconiere sia essenzialmente una persona senza regolare porto d’armi per la caccia e licenza per l’attività venatoria. In realtà è un concetto più ampio, e comprende chiunque eserciti la caccia in modo illegale. Si fa quindi riferimento non solo a chi non ha il porto d’armi, ma anche a chi ne è in possesso e ha la licenza necessaria, ma esercita la caccia abbattendo, ad esempio, specie protette, sparando nei giorni di silenzio venatorio oppure cacciando all’interno di un Parco nazionale”. Un legame stretto tra bracconaggio e caccia autorizzata viene confermato anche da Ciro Troiano, responsabile dell’“Osservatorio nazionale zoomafia” della Lega Anti Vivisezione (www.lav.it): “Questo fenomeno illegale investe gran parte del mondo venatorio, dal momento che la stragrande maggioranza delle persone denunciate sono cacciatori regolari, cioè con porto d’armi, che esercitano questa attività con mezzi e in periodi vietati o in luoghi non consentiti”.
Avere o meno la licenza di caccia, nei casi di bracconaggio fa la differenza. Chi ne è sprovvisto, commette il reato di uccisione di animale, e al suo caso si applicano l’articolo 544 bis del Codice Penale (“Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da tre mesi a diciotto mesi”) e l’articolo 624 del Codice Penale, che punisce il furto venatorio, essendo la fauna selvatica patrimonio dello Stato, come dichiarato nell’articolo 1 della legge 157/92 (“La fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale”). Se il bracconiere è però munito di regolare licenza, vengono invece applicate “banali contravvenzioni di cui all’articolo 30 della legge 157 del 1992” spiega l’avvocato Carla Campanaro dell’ufficio legale della Lav. Quella stessa legge che, come si è visto, dovrebbe tutelare la fauna selvatica, prevede infatti anche una serie di sanzioni che, secondo Isabella Pratesi, responsabile “Conservazione programma internazionale del Wwf (www.wwf.it) sono “assolutamente inadeguate”. Per chi abbatte mammiferi o uccelli appartenenti a specie “particolarmente protette”, infatti, la pena prevista è l’arresto da due a otto mesi o l’ammenda da euro 774 a euro 2.065, mentre chi caccia nei Parchi nazionali, nei Parchi naturali regionali, nelle Riserve naturali, nelle Oasi di protezione e nelle zone di ripopolamento e cattura rischia l’arresto fino a sei mesi e l’ammenda da euro 464 a euro 1.549. Arresto fino a tre mesi o ammenda fino a euro 516 per chi esercita la caccia nei giorni di silenzio venatorio. “Oltre alla mancanza di controlli pubblici adeguati e capillari sul territorio -nota l’avvocato Campanaro-, il problema è una precisa scelta del legislatore da sempre quella di applicare le ‘ammende’, che non fanno sicuramente paura a chi decide di bracconare”. Inoltre, fino a sentenza definitiva di condanna il bracconiere non perde la licenza di caccia.
Tutto questo non fa paura e non disincentiva. Isidoro Furlan, Comandante provinciale di Verona del Corpo Forestale dello Stato, e in prima linea alla lotta contro il bracconaggio per oltre 25 anni, spiega anzi che “l’eventuale sanzione a cui va incontro il bracconiere viene messa in bilancio quando questo decide di andare a caccia illegale”. Facendo un esempio, Furlan specifica che un’eventuale sanzione amministrativa di 2mila euro, ad esempio, è considerata come un pegno da pagare e comunque tollerabile a fronte di un guadagno che può arrivare tranquillamente ai 10mila euro in una stagione di caccia: “Un capo di cervo può rendermi anche 1.000 euro perché sono 100 chili di carne pulita a 10 euro al chilo. Uno che fa questo lavoro 10 cervi in un anno li uccide senza problemi”.
Le associazioni hanno chiesto più volte la modifica dell’articolo 30 della legge 157/92 e l’inasprimento delle sanzioni. Una richiesta che è giunta anche dall’Unione Europea, che con la direttiva sulla tutela penale dell’ambiente -2008/99/CE- ha invitato l’Italia a contrastare tali attività illecite con un adeguato strumento sanzionatorio penale. Nel 2001 l’Italia ha così introdotto l’articolo 727 bis, che punisce “chiunque, fuori dai casi consentiti, uccide, cattura o detiene esemplari appartenenti ad una specie animale selvatica protetta” con “l’arresto da uno a sei mesi o con l’ammenda fino a 4.000 euro, salvo i casi in cui l’azione riguardi una quantità trascurabile di tali esemplari e abbia un impatto trascurabile sullo stato di conservazione della specie”. Ma anche in questo caso, il pagamento dell’ammenda chiude la questione e non impedisce ai bracconieri di portare avanti la loro attività illegale, diffusa in tutta Italia.
Alcune zone, però, sono particolarmente colpite, come il bresciano che, stando ai dati pubblicati dal Rapporto Zoomafia 2014 della Lav, svetta per numero di procedimenti: nel 2013 alla Procura di Brescia risultavano 254 procedimenti a carico di noti, 258 indagati e 60 procedimenti a carico di ignoti per violazione della legge 157/92. Il bracconaggio praticato in questa zona ha come finalità principale quella alimentare, e come acquirente figurano i ristoranti della zona che presentano nel loro menù il tipico piatto “polenta e osei”. Uccelli di piccole dimensioni, soprattutto pettirossi, fringuelli o peppole, vengono catturati con gli “archetti”, micidiali trappole che spezzano le zampe degli uccelletti nel momento in cui questi vi si appoggiano, o con le reti. “Un piatto del genere -dice Furlan- costa al cliente circa 50 euro, mentre il ristoratore paga gli animali dai 2 ai 2,5 euro, che arrivano già spennati, grazie a specifici macchinari, e rifiniti, cioè senza zampe e becco, così da renderli irriconoscibili”. In 25 anni di attività la Lipu (Lega italiana protezione uccelli, www.lipu.it) ha rimosso 900mila trappole e micro tagliole nelle valli bresciane.
Altra zona calda è quella del Basso Sulcis, in provincia di Cagliari, dove tordi, merli, pettirossi e fringuelli abbattuti diventano un piatto tradizionale del Natale cagliaritano, le famose Grive. “Questi bracconieri -spiega Fulvio Mamone Capria, presidente della Lipu- possono gestire direttamente un sentiero nella macchia mediterranea e tenere per sé il profitto illegale oppure assoldare persone, soprattutto giovani, che vengono pagate a giornata durante il periodo di svernamento degli uccelli in Sardegna, da novembre a gennaio”. Il risultato di questa mattanza sono 500mila uccelli passeriformi catturati ogni anno e 100mila trappole rimosse dal 2005 in Sardegna grazie ai campi antibracconaggio gestiti annualmente dalla Lipu.
Sullo stretto di Messina, invece, il bracconaggio non ha finalità culinarie, ma risulta legato a un’antica tradizione con risvolti legati alla fedeltà coniugale: “Quando c’è il passaggio migratorio dei rapaci che vengono dalla Sicilia e vanno verso la Calabria -dice Claudio Marrucci- esiste una tradizione secondo la quale il calabrese che non abbatte uno di questi rapaci, come i Falchi Pecchiaioli, viene sbeffeggiato dal paese e si sostiene che possa avere dei problemi di fedeltà da parte della propria moglie”. In alcune zone, poi, il bracconaggio si lega alla criminalità organizzata locale, come succede nel casertano, nelle zone Villa Literno, Casal di Principe e Mondragone, dove le vittime diventano trofei o animali da imbalsamazione: “Qui -racconta il presidente della Lipu- vengono allagati ettari ed ettari di campagna per realizzare delle vasche, profonde dai 10 ai 40 centimetri, che diventano un’attrazione per uccelli in migrazione. Nella notte, quando gli uccelli si fermano in questa aree, i cacciatori, grazie anche all’uso di richiami elettromagnetici vietati, scaricano l’intero caricatore del fucile facendo una vera e propria mattanza di uccelli acquatici”. Restano così uccisi specie appartenenti alla famiglia degli ardeidi, come aironi, fenicotteri e anatre destinati al commercio alimentare o a quello degli appassionati di trofei. Altre zone a rischio sono le isole campane, le isole Pontine, le saline di Margherita di Savoia in Puglia il e Parco regionale del Delta del Po.
Il bracconaggio legato agli uccelli è quello numericamente più importante, vista anche la posizione dell’Italia lungo una delle rotte di migrazione più importanti tra Africa ed Europa, ma tra le vittime di tale pratica figurano anche altri animali, come sottolinea Isabella Pratesi del Wwf: “Pesci, presi con le spadare, strumenti di pesca illegali, mammiferi marini, come i delfini bracconati per alcune parti del loro corpo, o rettili marini, come la tartarughe, che non possono essere catturate”. Da non dimenticare poi i mammiferi terrestri, come ungulati, cervi, caprioli, orsi e lupi, come dimostra la mattanza di questi ultimi avvenuta nel grossetano quest’anno. “Ricordiamoci però -conclude Pratesi- che noi vediamo solo la punta dell’iceberg: i pochi sequestri e i bracconieri sorpresi in flagrante rappresentano un numero estremamente ridotto rispetto alla realtà che scaturisce dalle segnalazioni provenienti dal territorio e dalle Guardie Volontarie Venatorie”. —