Ambiente
L’Italia è una Repubblica fondata sul petrolio
Dalle norme che stabiliscono un limite minimo di estrazione di gas e greggio, entro il quale le compagnie petrolifere non pagano alcuna tassa, alle autocertificazioni sulle quantità di idrocarburi estratti. Dai limiti costieri di interdizione entro i quali sono vietate attività di prospezione, ricerca e coltivazione, agli ultimi Decreti in materia di “Liberalizzazioni” e “Sviluppo” varati dal Governo Monti. Oggi sono principalmente questi i punti di riferimento di una normativa italiana particolarmente permissiva -e peggiorativa- in materia di estrazioni petrolifere.
Per il Decreto “Sviluppo” si è addirittura configurata una “sanatoria petrolifera” per le attività di ricerca in mare grazie alla quale i principali operatori hanno la possibilità di ottenere il via libera e “condonare” quei progetti troppo vicini alla costa. Un esempio sono le grandi manovre in atto nel mar Jonio, come da noi già ampiamente documentato, che potrebbero coinvolgere anche le coste adriatiche, siciliane e quelle della Sardegna. Per cercare di far luce su un panorama particolarmente ostico, complesso ed ingarbugliato, abbiamo incontrato il costituzionalista Enzo Di Salvatore, professore di Diritto costituzionale italiano e comparato presso la Facoltà di Giurisprudenza di Teramo, docente presso il Master di Diritto dell’Ambiente della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma “La Sapienza”, nonché autore -tra numerose pubblicazioni accademiche- dell’interessante saggio dal titolo “Abruzzo color petrolio” (Edizioni Palumbi, 2010). Un prezioso approfondimento sulla vicenda giuridica abruzzese, che ha fatto da sfondo ad una guerra -a colpi di ricorsi- tra Regione, Stato e Corte Costituzionale.
Decreto “Liberalizzazioni” e Decreto “Sviluppo”. Professore, cosa è cambiato nel nostro Paese dal punto di vista dello sfruttamento delle fonti fossili?
I due decreti hanno inciso profondamente sulla disciplina della materia. L’articolo 16 del Decreto “Liberalizzazioni” ci fa capire quale sarà la strategia che il Governo, attualmente in carica, sta mettendo in atto. Un percorso lungo il quale si muoverà, quasi sicuramente, il prossimo Esecutivo, al di là del suo colore politico. Perché non mi risulta che in sede parlamentare qualcuno abbia eccepito alcunché sui contenuti del suddetto articolo. Nessuno, in particolare, ha osservato che il Parlamento veniva chiamato a convertire una disposizione per così dire in bianco. Con l’articolo 16 si è stabilito, infatti, che le modalità di realizzazione degli investimenti per la ricerca e lo sviluppo degli idrocarburi fossero fissate solo sei mesi dopo l’entrata in vigore del decreto, ovvero solo dopo la conversione in legge da parte del Parlamento. Quindi il Parlamento si è trovato davanti ad una scatola chiusa. Quanto al Decreto “Sviluppo” sono due articoli gli articoli significativi: il 35 ed il 38. Con l’articolo 35 si è riscritta completamente la disciplina varata nell’agosto del 2010 dall’allora ministro dell’ambiente, Stefania Prestigiacomo, la quale -a seguito del disastro petrolifero del Golfo del Messico- aveva chiesto ed ottenuto una modifica al Codice dell’Ambiente, affinché fossero vietate le attività petrolifere nelle aree marine e costiere protette, nonché entro le 12 miglia marine dalla costa per il tratto di mare antistante dette aree, ed entro le 5 miglia marine lungo tutta la Penisola italiana.
Poi, invece, è arrivata la sanatoria.
Sì. Oggi, infatti, da un lato il limite delle 5 miglia marine è stato portato a 12 e riguarderà non solo il petrolio, ma anche il gas. Dall’altro, invece, il divieto di cercare ed estrarre idrocarburi non interesserà quei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del “Decreto Prestigiacomo”, che potranno riprendere indisturbati il proprio iter. Una disciplina che contiene in sé una evidente contraddizione, giacché se è stata recata per ragioni di tutela ambientale, allora qualcuno dovrebbe spiegarci come mai tale esigenza sussista solo per il futuro e non anche per il passato, cioè non in relazione a procedimenti definitivamente conclusi, ma in relazione a procedimenti che erano stati “seppelliti” dal “Decreto Prestigiacomo” e che con il Decreto “Sviluppo” si sono riportati in vita. Nella relazione che lo accompagnava si diceva che in questo modo si sarebbero sbloccati “4,5 miliardi di investimenti in 8 progetti di sviluppo di giacimenti già individuati e perforati ma non ancora messi in produzione, altrimenti destinati a restare improduttivi con oneri a carico dello Stato” e che si sarebbero evitate “richieste di risarcimento da parte delle imprese allo Stato italiano per la revoca degli affidamenti fatta ad investimenti in corso”. Come dire: se non accordiamo la concessione ad estrarre petrolio, lo Stato italiano dovrà risarcire con milioni e milioni di euro le compagnie petrolifere per gli investimenti effettuati. In realtà, la modifica voluta dall’ex ministro Prestigiacomo teneva distinte due ipotesi: i “procedimenti autorizzatori in corso” e quelli già conclusi. Nel Codice dell’Ambiente si leggeva: “Resta ferma l’efficacia dei titoli abilitativi già rilasciati” alla data di entrata in vigore della legge.
Non certo una misura trascurabile. Ma, concretamente, cosa significa?
Significa che se io possiedo un titolo minerario per estrarre petrolio, qualora mi fosse impedito improvvisamente di farlo, potrei legittimamente chiedere un risarcimento milionario. Qualora, invece, un procedimento autorizzatorio fosse ancora in itinere, non avendo ancora alcun titolo minerario per estrarre petrolio, non avrei neppure alcun diritto per chiedere un risarcimento milionario. Certo, nell’attesa che il procedimento autorizzatorio si concluda, le società petrolifere potrebbero aver già investito e non poco. Ma, allora, la questione si sposterebbe su un piano diverso, in quanto concernerebbe il rischio che da sempre accompagna inevitabilmente l’iniziativa economica privata: del piccolo imprenditore, così come della più grande multinazionale.
Mentre l’articolo 38 prefigura la modifica della nostra Costituzione.
Con l’articolo 38 si è recata una semplificazione dei procedimenti amministrativi per il settore energetico. In esso si dice che nel caso di mancata espressione da parte delle amministrazioni regionali degli atti di assenso o di intesa riguardanti le funzioni amministrative in materia energetica -tra le quali l’individuazione delle infrastrutture e degli insediamenti strategici, nonché quelle concernenti la prospezione, la ricerca e la coltivazione degli idrocarburi- il ministero dello Sviluppo economico, qualora la Regione resti inerte o persista nel suo rifiuto, rimette gli atti alla Presidenza del Consiglio dei ministri – si badi, non al Consiglio dei ministri – per l’esercizio del potere sostitutivo. Si tratta di funzioni amministrative che lo Stato ha riservato a sé. Questa possibilità è indubbiamente considerata dalla nostra Carta costituzionale all’art.118. Ma la riserva in capo allo Stato dell’esercizio di tali funzioni – che, quanto a titolarità, non sarebbero dello Stato – sconta il rispetto di alcune condizioni. Nel caso di specie, che si stringa un’intesa con la Regione. Lo ha stabilito anche la Corte costituzionale con la sentenza n. 383 del 2005. In essa si è precisato che l’intesa che la Regione è chiamata a rilasciare vada qualificata come intesa “in senso forte”, e cioè “a struttura necessariamente bilaterale”, come tale non superabile “con decisione unilaterale di una delle parti”. La Corte ha inoltre precisato che “nel caso limite del mancato raggiungimento dell’intesa potrebbe essere utilizzato, in ipotesi, lo strumento del ricorso in sede di conflitto di attribuzione”. Ma non è tutto, perché in sede parlamentare, in occasione della conversione in legge del Decreto, il testo dell’articolo 38 è stato lievemente modificato. Nel senso che, dietro presentazione di un emendamento da parte degli onorevoli del PDL Vincenzo Gibiino e Stefano Saglia (in seno alle Commissioni riunite VI e X) si è deciso di estendere la disciplina sulla semplificazione amministrativa anche alle autorizzazioni per la costruzione dei gasdotti e degli oleodotti.
In poche parole, l’“esproprio” dei poteri regionali in materia energetica è stato esteso.
Prima della modifica legislativa la Regione, chiamata a stringere con lo Stato un’intesa, avrebbe potuto chiedere che sull’opera si effettuasse una nuova valutazione e avrebbe potuto sottoporre allo Stato un progetto alternativo. Ora, invece, non può più pretendere nulla. Ovviamente questa previsione si applicherà anche ai procedimenti in corso. E nello specifico si applicherà al megagasdotto che attraverserà l’Italia per circa 700 chilometri (il “Rete Adriatica” della Rete Snam Gas, ndr), che ha suscitato forti polemiche in ragione del fatto che l’opera interesserà aree ad alto rischio sismico, come quelle della Provincia di L’Aquila. Inoltre, proprio in questi giorni il Parlamento ha convertito in legge il Decreto “Crescita 2.0”, noto anche come Decreto “Sviluppo bis”. Questo Decreto introduce una novità in fatto di misure di compensazione. La Legge n.239/2004 sull’energia aveva previsto che le Regioni e gli Enti locali territorialmente interessati dalla localizzazione di nuove infrastrutture energetiche, ovvero dal potenziamento o trasformazione di infrastrutture esistenti, avessero il diritto di stipulare accordi con i soggetti proponenti circa le misure di compensazione e di riequilibrio ambientale. Ora l’articolo 34, comma 11, del Decreto “Crescita 2.0” stabilisce che detti accordi siano stipulati “nei modi stabiliti con decreto del Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza unificata, da adottarsi entro sei mesi”. Quindi, mi pare di capire, che sul punto le Regioni e gli Enti locali non avranno più capacità decisionale autonoma.
A proposito di Regioni, il massimo Ente della Basilicata ha depositato una discussa moratoria sui nuovi permessi di ricerca sul proprio territorio, mettendo in atto un braccio di ferro con lo Stato che ha deciso di impugnarla ed impugnando, a sua volta, l’articolo 38 del Decreto “Sviluppo”. Ci spieghi la situazione, tra illegittimità e ricorsi.
È proprio il caso di dirlo. Un vero e proprio braccio di ferro con lo Stato, in quanto, da un lato, la Regione Basilicata ha impugnato il Decreto “Sviluppo”, mentre, dall’altro, il Governo ha impugnato la legge di assestamento del bilancio della Regione Basilicata, nella parte in cui stabilisce che, a far data dall’entrata in vigore della legge, non rilascerà più l’intesa per il “conferimento di nuovi titoli minerari per la prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi”. Previsione, questa, che viene dalla legge estesa anche ai procedimenti amministrativi in corso. Ora è chiaro che a fronte di quanto prevede il Decreto “Sviluppo” questa disposizione sembrerebbe inutile, posto che l’articolo 38 dello stesso stabilisce che in caso di diniego dell’intesa, lo Stato adotti in solitudine la decisione finale. Da questo punto di vista, quindi, proprio perché non fosse inutiliter data quella previsione legislativa, la Regione ha dovuto necessariamente impugnarlo. Dall’altro, però, stabilire con legge che la Regione si rifiuterà di rilasciare l’intesa “a prescindere” dalla valutazione del caso concreto, è, dal mio punto di vista, costituzionalmente illegittimo. Esso violerebbe il principio di leale collaborazione, che sempre deve presiedere ai rapporti tra lo Stato e la Regione. Ma ovviamente attendiamo di vedere cosa stabilirà la Corte costituzionale. A meno che, si intende, il Governo e la Regione non si accordino diversamente, rinunciando entrambi al proprio ricorso. L’articolo 127 della Costituzione stabilisce che lo Stato possa impugnare le leggi della Regione dinanzi alla Corte costituzionale e che altrettanto possa fare la Regione, entro 60 giorni dalla pubblicazione della legge. Lo Stato può farlo quando ritenga che la legge della Regione ecceda la sua competenza, e cioè quando si spinga a disciplinare una materia che non sia di sua stretta competenza. La Regione, invece, può farlo solo quando ritenga che lo Stato invada la competenza regionale. La differenza è di sostanza, avendo lo Stato sempre un interesse generale a ricorrere.
Quale scenario potrebbe delinearsi?
Tanto per fare un esempio, mentre lo Stato potrebbe chiedere alla Corte costituzionale di dichiarare illegittima una legge regionale per violazione del principio di eguaglianza, la Regione non potrebbe rivolgersi dinanzi alla Corte per questo stesso motivo, non producendosi, in questo caso, una invasione della competenza regionale. È chiaro che un conto è il ricorso, un conto è la dichiarazione di illegittimità costituzionale: chi ricorre non ha necessariamente ragione. Stabilire chi abbia ragione è compito della Corte costituzionale, la quale potrà dichiarare l’illegittimità della legge oggetto del ricorso, come pure l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale portata alla sua attenzione. Quando la Corte dichiara l’illegittimità di una legge dello Stato o della Regione, quella legge non può più essere applicata. E gli effetti della dichiarazione della Corte si estendono anche al passato. Diversamente dall’abrogazione di una legge, che, salvo previsione contraria, si producono solo per il futuro.
Abbiamo parlato di modifica del Titolo V e dell’articolo 117 della nostra Carta. Dal punto di vista costituzionale è tutto legittimo?
Mi pone questa domanda, credo, perché con il disegno di legge di revisione costituzionale presentato dal Governo si vorrebbe ricondurre la materia della “produzione, trasporto e distribuzione dell’energia, di interesse non esclusivamente regionale” in capo allo Stato. Ora, una modifica dell’articolo 117 della Costituzione – che stabilisce, appunto, quali sono le competenze legislative dello Stato e della Regione – se effettuata con il procedimento di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138 della Costituzione è perfettamente legittima. Non esistono materie che spettino naturalmente della Regione. L’unico limite alla revisione concerne la forma repubblicana e i principi “supremi” dell’ordinamento costituzionale. Le perplessità sono ben altre. Il fatto che ad esempio si dica che “nelle materie di legislazione concorrente le Regioni esercitano la potestà legislativa nel rispetto della legislazione dello Stato, alla quale spetta di disciplinare i profili funzionali all’unità giuridica ed economica della Repubblica stabilendo, se necessario, un termine non inferiore a centoventi giorni per l’adeguamento della legislazione regionale”. Una previsione che il Governo definisce come “formula di chiusura” e che dovrebbe valere “a prescindere dalla ripartizione delle competenze legislative”. Con questo si codificherebbe in Costituzione una “clausola di supremazia”, analoga a quella recepita dai sistemi federali. Evidentemente chi sostiene un’analogia di questo tipo non conosce a fondo i sistemi federali, dove la clausola di supremazia spiega i suoi effetti solo a patto che si sia rispettato il riparto delle competenze legislative. Anzi, visto che lo stesso Governo tira in ballo i sistemi federali, aggiungo che nel 2006 la Germania -che è, appunto, uno Stato federale- ha approvato un’importante riforma costituzionale, cancellando la competenza ripartita tra lo Stato e i Länder dalla Costituzione. Questa decisione poggia sul fatto che, come ha scritto il costituzionalista tedesco Josef Isensee, nei sistemi federali non ci possono essere “soluzioni condominiali”: la competenza deve spettare o allo Stato o agli territoriali decentrati.
I progetti energetici (megastoccaggi di gas, rigassificatori, nuova ricerca ed estrazione di idrocarburi, gasdotti) che si vogliono realizzare in Italia, vengono fatti passare per opere strategiche, alcune finanziate dall’Europa. Come si coniuga tutto questo con l’assenza di una normativa comunitaria sulle estrazioni petrolifere comune tra tutti gli Stati membri e la sola presenza di alcune direttive, spesso disattese?
La questione della disciplina dell’energia in ambito europeo è particolarmente complessa da affrontare. Tralascio qui di considerare, ovviamente, la questione della strategia “Energia 2020” e mi limito ad osservare un paio di cose. Intanto ricordo che a seguito dell’approvazione del Trattato di Lisbona l’energia è stata elevata espressamente a politica dell’Unione, nel quadro dell’instaurazione e del funzionamento del mercato interno. A tal proposito vorrei sottolineare come l’articolo 194 del Trattato sul funzionamento dell’Unione (che ora sostituisce il Trattato CE) precisa che, nonostante l’Unione abbia competenza sull’energia, questo non possa incidere sul diritto di ciascun Stato membro di determinare le condizioni di utilizzo delle sue fonti energetiche e la struttura generale del suo approvvigionamento. Per quanto concerne gli idrocarburi esiste da tempo una Direttiva, che riconosce allo Stato membro il diritto di determinare, all’interno del suo territorio, le aree da rendere disponibili per le attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi ed anche la facoltà di stabilire le condizioni e i requisiti per l’esercizio delle attività stesse, se così giustificato da motivi di sicurezza nazionale, pubblica sanità, tutela dell’ambiente. Quindi lo Stato mantiene il diritto di escludere che su talune parti del suo territorio si esercitino le attività petrolifere. È chiaro, tuttavia, che una volta che lo ammetta, dovrebbe poi garantire che l’accesso alle stesse avvenga senza discriminazione alcuna. Attualmente in sede europea si sta discutendo intorno ad una proposta di atto normativo sulla sicurezza delle attività offshore per il settore degli idrocarburi ed anche sulla opportunità che l’Unione europea aderisca al Protocollo per la protezione del Mare Mediterraneo contro l’inquinamento derivante da esplorazione e sfruttamento della piattaforma continentale, del fondale marino e del relativo sottosuolo, adottato a Madrid nel 1994. Le ragioni di questa adesione sono essenzialmente due: anzitutto perché in questo modo si “completa” la proposta legislativa sulla responsabilità delle attività offshore; in secondo luogo, perché così facendo si spera di incoraggiare gli Stati membri dell’UE a fare altrettanto. Il Protocollo, infatti, non è ancora entrato in vigore. Perché questo accada occorre che almeno sei Paesi membri della Convenzione di Barcellona ratifichino il Protocollo.
In buona sostanza, l’Unione vorrebbe rendere più omogenea la normativa del Regolamento sulla sicurezza delle attività offshore (attualmente in preparazione) con quanto previsto dal Protocollo. Una delle questioni che, però, resterebbe da risolvere è relativa al fatto che la proposta di Regolamento non si applicherebbe alla costruzione degli impianti, mentre il Protocollo sì. Sarebbe quindi opportuno prevedere nel Regolamento che la disciplina sulla responsabilità venga estesa anche alla costruzione degli impianti, stabilendo che questi siano realizzati secondo standard internazionali, che gli operatori possiedano le capacità tecniche e finanziarie per la realizzazione delle attività e che le autorizzazioni siano negate quando le attività medesime dovessero compromettere in modo significativo l’ambiente. Comunque, le questioni che restano aperte sono ancora molteplici. Occorrerebbe, ad esempio, discutere sulla opportunità di estendere obbligatoriamente la normativa sulla valutazione di impatto ambientale anche alle attività offshore di esplorazione, che nel Regolamento le diverse fasi delle attività petrolifere restino distinte e non considerate unitariamente, come mi pare faccia, invece, il Protocollo.
Parlando di Direttive europee lei ha citato quella che riconosce agli Stati membri il diritto di determinare le aree da rendere disponibili per le attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi. Andando a livello locale, alcune Regioni italiane, soprattutto quelle Adriatiche, hanno o vorrebbero legiferare in materia. Cosa ne pensa?
Mi limito a considerare unicamente la legge abruzzese in materia, in quanto essa si porrebbe un po’ a modello di riferimento per le altre Regioni, come ho avuto modo di leggere. La Legge Regionale n. 48 del 2010, in realtà, non si occupa direttamente di petrolio. Lo fa solo incidentalmente. Nel senso che, per un verso, disciplina il rilascio dell’intesa con lo Stato da parte della Regione; e, per altro verso, reca indicazioni per il Comitato VIA della Regione, nel caso in cui questo si trovi a valutare progetti petroliferi. Ma ovviamente non c’è alcuna possibilità né di negare l’intesa né di valutare negativamente un progetto solo perché riguardi il petrolio. Quello che nella legge si dice è che la prospezione, la ricerca e la coltivazione degli idrocarburi presenta “profili” di incompatibilità con alcune aree del territorio regionale, come quelle protette e quelle sottoposte a vincoli ambientali Nessun divieto, dunque. Semmai, solo l’opportunità che i progetti petroliferi presentati siano valutati in modo più stringente. La qual cosa, nel caso del Comitato VIA, si tradurrebbe solo nel “dovere” di motivare in modo più rigoroso la decisione assunta. Non esisterebbe alcun “obbligo” sul punto: secondo quanto risulta dalla legge, infatti, le disposizioni in essa contenute hanno unicamente “valore di norma di indirizzo”.