Ambiente
L’idroelettrico rompe gli argini
Si moltiplicano i mini impianti sui corsi d’acqua lungo l’arco alpino. Le battaglie dei comitati che difendono gli habitat naturali. Tra i più attivi, quelli del bellunese, che hanno presentato una Denuncia alla Commissione europea. E domani, sabato 19 ottobre, a Feltre (BL) si tiene il convegno "Dalle catastrofi annunciate alla democrazia dei Beni Comuni" —
Lucia Ruffato tiene la “contabilità” dei torrenti. Le sue schede sono fatte di nomi e numeri: Cismon, 100%; Ansiei, 82%; Maé, 84%; Boite, 62%; Cordevole, 91%; Biois, 100%; Pettorina, oltre il 100%. I primi sono tutti corsi d’acqua del Bellunese, e fanno parte del bacino del Piave; i secondi, invece, rappresentano un “indice di sfruttamento”, raccontano, cioè, in che misura la loro portata verrebbe intaccata se venissero realizzate tutte le nuove centrali idroelettriche per le quali è stata richiesta l’autorizzazione. “Sono 220 i corsi d’acqua censiti in Provincia, e ben 198 sono già ‘derivati’ -spiega Lucia-. Dal 2004 ad oggi sono state presentate ben 200 domande per il rilascio di nuove concessioni -aggiunge-: questo non significa che verranno realizzati duecento impianti idroelettrici, perché sul Boite, ad esempio, ci sono ben dieci progetti in concorrenza, ma che la situazione è fuori controllo”. Sono comunque 105 le centraline che potrebbero essere autorizzare.
Lucia Ruffato vive a Forno di Zoldo, e il suo impegno è iniziato nel suo Comune, per una richiesta di presa sul Ru Torto. Poi si è allargato a tutta la Provincia, insieme al Comitato bellunese acqua bene comune: è lei ad aver realizzato il database e la “mappa del rischio idroelettrico” che si può scaricare dal sito www.acquabenecomunebelluno.it/idroelettrico (“Di fronte alla nostra richiesta, la Regione Veneto ha risposto che non poteva elaborare i dati, e così la mappa l’abbiamo costruita da soli” chiarisce); e sua, in quanto presidente del Comitato, è anche la firma in calce alla “Denuncia alla Commissione delle Comunità europee” nei confronti dello Stato italiano, della Regione Veneto, della Provincia di Belluno e dell’Autorità di bacino dei fiume dell’alto Adriatico, inoltrata a Bruxelles nel giugno del 2013 per contestare la violazione di una serie di direttive, tra cui la 2000/60, la “Direttiva quadro acque”, la 2011/92, relativa alla valutazione dell’impatto ambientale dei progetti, e la 92/43, quella sulla conservazione degli habitat naturali.
“Abbiamo ricevuto la comunicazione dell’avvenuta registrazione -racconta Valter Bonan, assessore ai Beni Comuni del Comune di Feltre e membro del Comitato-. Inoltre, il segretario della Commissione ambiente ha informato di aver recepito una interrogazione presentata a luglio 2013 da Andrea Zanoni, deputato al Parlamento europeo, che invitata la Commissione ad intraprendere azioni per accertare e reagire alle eventuali violazioni”.
Secondo Lucia Ruffato, però, il punto è un altro: “Basta fare un conto. Se anche tutti gli impianti con autorizzazioni in itinere venissero realizzati, ciò garantirebbe un aumento di 35 MegaWatt della potenza installata, che è ‘nulla’ a fronte della capacità attuale”, che secondo l’ultima Relazione annuale dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas è di 22,4 GigaWatt, 22.400 MW. Per guardare al Veneto, nel 2010 i piccoli impianti -quelli con una potenza installata inferiore a 1 MW- garantivano il 5% della produzione, pur rappresentando il 76% del totale, 195 su 256. “Delle 85 domande in fase di istruttoria -analizza Lucia- ben 78 riguardano impianti di potenza inferiore a 1 MW”.
Il nodo lo riassume Francesco Pastorelli, portavoce in Italia del Commissione internazionale per la protezione delle Alpi (Cipra, www.cipra.org), organizzazione non governativa internazionale nata nel 1952 che dal 10 al 12 ottobre organizza a Bolzano la propria conferenza nazionale “Abbeveratoio Alpi: chi dà, chi prende, e chi decide?”: “A livello di bilancio energetico, una serie di piccoli impianti non va ad incidere nemmeno in piccola parte sulle esigenze di un Paese -spiega Pastorelli-. Dal punto di vista dell’impatto sui corsi d’acqua, tenendo conto che si tratta, in larga parte, di intervenire su quelli che non sono ancora sfruttati, questo significa giocarsi la naturalità residua, quella che è rimasta”.
Naturalità, impatto, impianti: le parole di Pastorelli chiamano in causa la valutazione dell’incidenza ambientale (Via) di un progetto. Che in Veneto, per molti di questo interventi, non c’è: “La Regione Veneto ha scelto di snellire le procedure di autorizzazione -spiega Lucia-. Questo fa sì che siano escluse dalla Via tutti quelli interventi che presentino determinati requisiti: qualora la centralina si trova fuori da aree protette quali Siti d’interesse comunitario e Zone di protezione speciale, abbia una capacità inferiore al MegaWatt, e presenti un rapporto inferiore a 3 tra la portata media e la derivazione richiesta, l’impatto è considerato nullo, e valutarlo non serve”.
Il rischio è quello di un gioco distruttivo, per la naturalità del corso d’acqua: “Presa-rilascio, presa-rilascio, presa-rilascio, e intanto il fiume muore” riassume Lucia. Questo aspetto emerge nella Denuncia che il Comitato bellunese acqua bene comune ha invitato alla Commissione europea: “Nel considerare se sottoporre o meno un progetto a valutazione ambientale non si può mai omettere di considerare l’impatto cumulativo dei progetti”, come ribadito in più sentenza della Corte di Giustizia europea. Secondo il Comitato, il rilascio di un numero elevatissimo di autorizzazioni comporta “effetti cumulativi devastanti sul bacino idrografico del fiume Piave”.
La richiesta del Comitato è riassunta in una lettera di diffida, inoltrata il 18 gennaio 2013 a Regione Veneto, Autorità di bacino, Arpav, Provincia, Soprintendenza per i beni culturali e ambientali del Veneto: una moratoria a nuove concessioni di derivazione e alle autorizzazioni per realizzare nuovi impianti idroelettrici. Sono 20 quelli autorizzati tra il 2011 e il 2012: “Di fronte alla crisi dell’edilizia, era l’unico cemento che si muoveva nelle valli -spiega Lucia-. Ma se l’idroelettrico non fosse incentivato, attraverso meccanismi come il ritiro dedicato, questi impianti sarebbero davvero convenienti?”.
La domanda è retorica, la risposta scontata: “Siamo di fronte ad una tecnologia ottocentesca, e ormai la si comanda quasi completamente in automatico -spiega Marco Baltieri, responsabile Fiumi di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta-. Ciò significa zero posti di lavoro e altissima redditività”.
In Piemonte, dal 2010 dev’essere discusso un testo di legge per regolare il settore. “Finalmente è arrivato in commissione -racconta Baltieri, che a metà luglio ha indirizzato una lettera ai consiglieri regionali, insieme a Pro Natura Piemonte-: alcuni aspetti sono interessanti, come la previsione di un limite massimo allo sfruttamento, pari al 70% della portata, e a una distanza minima tra diverse opere di presa”. Le osservazioni presentate dalle due associazioni ambientaliste chiedono un passo in più: intanto l’istituzione di “un limite di 1.500 metri di quota al di sopra del quale non si possano effettuare prelievi idrici a uso idroelettrico”, e poi di “preservare dalla realizzazione di nuovi impianti quei corsi d’acqua, da individuare, che presentino caratteristiche di naturalità”.
Una moratoria, insomma, come quelle che hanno chiesto un migliaio di cittadini bellunesi che il 28 luglio scorso hanno manifestato nell’Agordino. Sul manifesto era scritto #bastacentrali e “Come un fiume per i fiumi”. Ma il problema riguarda tutto l’arco alpino, compresi Lombardia e Friuli-Venezia Giulia: per questo, è nato un coordinamento interregionale tra comitati e associazioni. A giugno si sono incontrati in Friuli-Venezia Giulia. “Ripensare l’idroelettrico”, il titolo del convegno (tutto il materiale è sul sito di Legambiente, cms.legambientefvg.it). —