Opinioni
L’Eurozona è già finita
Nuovi segnali della crisi economia e finanziaria dell’Unione europea alimentano ogni giorno il dibattito sul futuro dell’euro. Analizzando alcuni dati, però, appare evidente che la moneta comune appare un ombrello non più in grado di coprire dalle turbolenze i Paesi membri, o almeno i più deboli. L’analisi di Alessandro Volpi, autore del libro "Sommersi dal debito"
Euro sì, euro no. Da tempo si discute in merito alla crisi della moneta unica, e si ipotizzano vari scenari circa la sua possibilità di sopravvivere o di essere nuovamente sostituita con il ritorno di alcune valute nazionali.
In realtà, diversi elementi sembrano far pensare che già oggi l’euro, inteso appunto come divisa comune dei Paesi dell’Eurozona, non esista più.
Non si tratta di una mera provocazione, ma di una considerazione suffragabile appunto sulla base di dati molto concreti.
1) La forte differenza tra i tassi di interesse pagati dai titoli di Stato dei vari Paesi europei. Quando la Germania colloca i suoi titoli biennali allo 0,07% e quelli decennali a poco più dell’1,3%, mentre l’Italia deve pagare, per gli stessi titoli, il 3,7 e il 5,8%, è evidente che l’Unione monetaria non esiste più. Questa differenza tra i rendimenti italiani e quelli tedeschi non c’era ancora un anno fa e si è materializzata con estrema rapidità nonostante il debito pubblico tedesco sia cresciuto dal 2007 ad oggi di oltre 400 miliardi di euro. La fuga verso i titoli tedeschi considerati come un bene rifugio, che consente quindi l’azzeramento dei loro rendimenti e la possibilità per la Germania di finanziarsi gratis -pur in presenza di un debito in crescita-, si giustifica solo con la chiara previsione di una rapida fine dell’euro, o quantomeno dell’uscita da esso di alcuni Paesi.
In caso di un ritorno alla lira, infatti, i titoli tedeschi conoscerebbero un fortissimo apprezzamento e dunque ciò giustificherebbe persino di accettare, allo stato attuale, di ricevere da tali titoli un rendimento inferiore al tasso d’inflazione. Se i mercati, come sta avvenendo nelle ultime aste, corrono a rifugiarsi nei bund germanici significa che scontano già ora la possibile fine dell’euro e per coprirsi contro tale rischio pretendono, già ora, dai Paesi deboli rendimenti non distanti da quelli che sarebbero costretti a pagare senza euro.
2) La forte differenza del costo del denaro tra i diversi Stati dell’Eurozona. Le banche italiane o spagnole che devono finanziarsi sul mercato sono costrette a pagare tassi che sono di 4-5 punti superiori a quelli praticati dalla Bce, mentre nel caso delle banche tedesche i tassi pagati per finanziarsi sono pressoché identici al tasso della Bce. Una simile differenze si traduce in un differente costo dell’accesso al credito per le imprese dei vari Paesi. Se le banche italiane e spagnole devono pagare 4-5 punti in più di quelle tedesche, le imprese italiane e spagnole dovranno pagare al sistema bancario dei loro Paesi interessi assai più alti delle imprese tedesche. Un grande gruppo tedesco paga il denaro l‘1,5%, un gruppo italiano di dimensioni analoghe paga ben oltre il 5% e per le piccole imprese il quadro è ancora più fosco; in Germania si approvvigionano al 2,5%, in Italia, quando riescono a ottenere il credito, pagano dall’8% in su, scontando un ulteriore limite alla loro già precaria competitività.
Questi dati dimostrano quindi che le politiche monetarie della Bce producono effetti decisamente diversi da Paese a Paese dell’Eurozona, e spesso persino all’interno dei singoli Paesi, a conferma della sostanziale scomparsa di un’unica area euro.
3) La fuga dei depositi dalle banche dei Paesi più deboli dell’Eurozona. Nonostante la moneta unica, infatti, negli ultimi mesi sono stati ritirati dalla banche spagnole quasi 70 miliardi di euro di depositi e in Grecia tali ritiri hanno raggiunto i 90 miliardi; l’eventualità di una futura uscita dall’euro e del ritorno alle valute nazionali ha innescato un massiccio ritiro dei depositi dalle banche dei Paesi a rischio per la paura di una loro trasformazione in dracme o in pesetas. Già oggi però questo significa che un euro depositato presso una banca spagnola vale assai meno di un euro depositato presso una banca tedesca. Un simile fenomeno tradotto in termini finanziari significa che le azioni delle banche spagnole perderanno costantemente di valore rispetto alla azioni delle banche tedesche.
L’Eurozona continua ad esistere ma appare sempre più come un insieme di realtà in condizioni profondamente diverse tra loro e ormai prive dell’ombrello di una moneta comune. In tale ottica, o l’Europa modifica la propria architettura istituzionale, mettendo la Bce nelle condizioni di prestare agli Stati e accettando una europeizzazione del debito in nome di una maggiore omogeneità, magari dando anche più tempo ai paesi indebitati per il loro rientro, oppure l’uscita dall’euro, già in atto, non potrà che accelerare.