Ambiente / Approfondimento
Le Aree marine protette europee sono ancora troppo poche e la loro tutela inadeguata
Pensate per la tutela dell’ambiente marino, le Aree marine protette (Amp) si rivelano essere spesso delle misure di conservazione “sulla carta” e quindi inefficaci e poco implementate. Lo studio scientifico One Earth fa il punto su quelle presenti in Europa, un numero ancora lontano dall’obiettivo del 30% entro il 2030. La situazione in Italia, denuncia Greenpeace, non è migliore
Quando deve descrivere le aree marine protette solo formalmente, Valentina Di Miccoli, campaigner mare di Greenpeace, usa l’espressione “parchi di carta”. E fa un esempio: il Santuario Pelagos, a protezione dei mammiferi marini nel Mediterraneo.
“È un caso di scuola di ‘parco di carta’ -dice Di Miccoli- dove in realtà non vengono implementate misure di conservazione della fauna. Questa zona è importante per i mammiferi che vivono nel Mediterraneo, tra cui molte specie a rischio d’estinzione, ma nel Santuario non vi è nessuna norma a tutela dei cetacei, l’area è diventata interessante solamente per le compagnie di whale watching”.
Il Santuario Pelagos è un’ampia zona protetta situata tra il territorio italiano, francese e monegasco ed è un chiaro esempio dell’inefficacia delle misure di conservazione implementate in molte Aree marine protette (Amp) presenti in Europa, che sono zone dei mari designate per la conservazione dell’ecosistema e la tutela della biodiversità.
L’inadeguatezza delle Amp per la tutela del mare è stata evidenziata anche da uno studio scientifico pubblicato nel settembre 2024 sulla rivista accademica One Earth da parte di nove scienziati provenienti da vari centri di ricerca internazionali, che per la prima volta hanno analizzato il livello di protezione e le restrizioni delle attività umane presenti nelle Aree marine protette dell’Unione europea.
Dallo studio è emerso che nella maggior parte di queste aree non vengono implementate misure di conservazione efficaci e la superficie di mare tutelato è ancora distante dai target che l’Unione ha previsto di raggiungere entro il 2030.
Nei singoli Stati la situazione non è migliore, come dimostra anche l’approfondita analisi pubblicata a luglio 2024 da Greenpeace Italia nel report “Mediterraneo da proteggere”, che fornisce una mappatura sull’effettiva tutela dei mari italiani.
La ricerca di One Earth si basa sulle cifre raccolte dal database mondiale sulle Aree marine protette, secondo cui a livello globale sono presenti più di 18mila Aree marine protette, delle quali 4.858 si trovano nelle acque nazionali degli Stati membri dell’Ue, pari all’11,4% della superficie marina, esclusi i territori d’oltremare. Gli scienziati suddividono i livelli di protezione in due categorie, quella elevata, ovvero aree in cui sono vietate completamente o in gran parte attività impattanti, e quella debole, cioè zone in cui sono permesse attività come la pesca e l’estrazione, motivi per cui un’area marina può venir definita come incompatibile con le misure di conservazione. Questi criteri vengono poi utilizzati per classificare il grado di conservazione dei mari europei, dei quali il 9,7% è sottoposto a una protezione minima, l’1,5% non è classificato e solo lo 0,2% risulta protetto da solide ed efficaci misure di conservazione.
Invece la superficie che rientra all’interno delle Aree marine protette -come detto l’11,4% dei mari europei- presenta vari livelli di tutela, dato che l’85,7% di queste zone sono scarsamente tutelate, l’1,5% invece viene fortemente protetto, il restante 12,8% non è classificabile. Questi dati mettono in luce la scarsa protezione in atto nelle aree marine europee, nelle quali spesso sono assenti dei regolamenti stringenti sulle attività estrattiva o sulla pesca industriale. Le mancanze legislative sono diffuse in tutte le aree geografiche del continente europeo e fra tutti gli Stati, una situazione che mette a rischio gli sforzi di conservazione portati avanti dall’Unione europea.
A livello normativo, le politiche comunitarie sulle aree marine sono state realizzate a seguito della “Direttiva Uccelli” del 1979 sulla protezione delle specie selvatiche e della “Direttiva Habitat” del 1992 sulla conservazione degli ecosistemi, che invitano i Paesi membri a individuare delle misure per tutelare gli ecosistemi e la biodiversità tramite la creazione di siti d’interesse comunitario (Sic), parte della rete Natura 2000. Queste misure sono state poi integrate dalla “Direttiva quadro sulla strategia per l’ambiente marino”, approvata nel 2008, che aveva l’obiettivo di stabilire un contesto legislativo coerente per la creazione di Aree marine protette. Tali regolamenti devono poi integrarsi con altri strumenti giuridici, come le leggi nazionali e la politica europea comune sulla pesca, e in questo contesto l’implementazione delle norme e la gestione pratica delle Aree marine protette varia in base agli Stati.
Gli autori della ricerca di One Earth sottolineano che, a causa di questo quadro giuridico stratificato, si è sviluppato un sistema eterogeneo di regole nazionali e europee, che è uno dei principali motivi dello scarso livello di protezione delle Aree marine protette. Inoltre sostengono che l’Unione europea non destina abbastanza fondi e personale per la tutela marina, che attua inefficacemente i regolamenti, non essendo perciò in grado di limitare le attività impattanti.
A livello europeo manca ancora uno strumento di monitoraggio per stimare l’effettivo stato di conservazione delle Amp, che viene invece valutato dai nove studiosi. Il loro lavoro infatti mostra come gli Stati europei siano ancora inefficaci nella protezione dell’ambiente marino, soprattutto rispetto all’obiettivo del 30 per 30, ovvero la protezione del 30% della superficie marina, di cui il 10% rigorosamente protetto, entro il 2030, obiettivo stabilito dalla Conferenza delle parti sulla biodiversità del dicembre 2022 (Cop15). Questo target, che non è stato aggiornato dalla Cop16, svoltasi in Colombia a novembre 2024, è stato inserito all’interno della Strategia europea sulla biodiversità per il 2030, che prevede di raggiungere gli obiettivi stabiliti dalla Cop 15 senza però fornire strumenti vincolanti e precisi.
In Italia invece, secondo i dati forniti dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), l’11,6% della superficie marina viene tutelato in varie forme, una cifra che dovrebbe raggiungere il 30% entro il 2030 per rispettare l’obiettivo della Cop15 inserito nella Strategia nazionale per la biodiversità. Greenpeace con il suo report ha verificato la correttezza dei dati forniti dall’Ispra, rilevando che solo lo 0,9% del territorio marino italiano viene realmente protetto, ovvero è gestito efficacemente e presenta chiari vincoli sulle attività permesse, percentuale che corrisponde a tutte le Aree marine protette e ai parchi nazionali marini presenti in Italia.
Il ministero dell’Ambiente definisce le Aree marine protette come “acque, fondali e tratti di costa prospicenti che presentano un rilevante interesse per le caratteristiche naturali, geomorfologiche, fisiche e biochimiche”, nelle quali la protezione viene delegata a un ente gestore, aspetto che le differenzia da altre forme di tutela che invece rimangono solo sulla carta. In queste aree infatti la pesca è strettamente regolamentata e in alcune sottozone specifiche è completamente vietata, un dato che però corrisponde allo 0,04% dei mari italiani, percentuale ben distante dal target del 10% della superficie marina in cui andrebbe vietata la pesca da raggiungere entro il 2030.
Secondo Greenpeace il governo considera come protetti territori dove mancano delle norme per la conservazione e non esistono limiti stringenti sulle attività di pesca, che corrispondono a tutti i Sic (Siti di interesse comunitario) parte della rete Natura 2000, zone ad alta biodiversità individuate dalla “Direttiva Habitat”. Nei Sic mancano dei piani di protezione e di regolamentazione sulla pesca e per questo motivo la Commissione europea ha avviato lo scorso febbraio una procedura d’infrazione contro l’Italia per non aver attuato i provvedimenti necessari per proteggere diverse specie marine e di uccelli all’interno di questi.
Nonostante lo scarso livello di protezione dei mari italiani esistono però degli esempi positivi di Aree marine protette come quella delle isole Egadi in Sicilia, istituita nel 1991 e gestita dal 2001 dal Comune di Favignana. Quest’area protetta, con un’estensione di 53.992 ettari, è la più grande nel territorio italiano e ospita un’ampia biodiversità marina, tra cui la prateria della pianta acquatica Posidonia oceanica più estesa e meglio conservata del Mediterraneo.
A tal proposito, Greenpeace nel suo report suggerisce di ingrandire le aree marine che già esistono, creando anche dei corridoi ecologici tra queste, e di cambiare i criteri con cui si stabiliscono le zonizzazioni (una suddivisione delle Aree marine protette in tre diversi livelli di tutela), definite più per rispettare gli interessi della pesca che non la conservazione ambientale.
“Solo tramite un network di Aree marine protette dotato di un corretto sistema di gestione integrata, di fondi e di piani di monitoraggio si potrà raggiungere il ‘target del 30 per 30′-conclude Valentina Di Miccoli-. L’Italia inoltre ha firmato ma non ha ancora ratificato il Trattato sugli oceani, chiediamo al governo di impegnarsi per adottare questo importante accordo e per proteggere realmente il Mediterraneo”.
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