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Ambiente

L’acquedotto è la nostra storia

In provincia di Biella un manipolo di consorzi “ribelli” non cede il servizio idrico agli enti locali, “perché questi tubi li hanno posati i nostri padri” Il signor Piero ha tutte le chiavi dell’acquedotto. È la sua passione, “praticamente da…

Tratto da Altreconomia 109 — Ottobre 2009

In provincia di Biella un manipolo di consorzi “ribelli” non cede il servizio idrico agli enti locali, “perché questi tubi li hanno posati i nostri padri”

Il signor Piero ha tutte le chiavi dell’acquedotto. È la sua passione, “praticamente da sempre”. Con orgoglio mostra la vasca sotterranea di raccolta dell’acqua: “Visto che grande?”. Montaldo è una frazione del piccolo comune di Mezzana Mortigliengo. È una borgata adagiata sui colli biellesi, in Piemonte. Un tempo qui era un fiorente distretto tessile, ormai teatro di archeologia industriale. Non fa nemmeno 200 abitanti, eppure è l’epicentro di una piccola ribellione. Che ha l’acqua per protagonista, e comincia la bellezza di 102 anni fa.
La storia, però, ce la racconta Simone, che di anni ne ha 23 ed è il segretario del “Consorzio acque potabili di Mezzana Montaldo”, l’ente che dal 1907 porta l’acqua agli abitanti di questo paesino. “All’inizio del secolo scorso la frazione non era servita dall’acquedotto comunale: siamo nella zona settentrionale del comune, troppo complicato portare qui i tubi, tra colline e bricchi” spiega. “Fu allora che alcune famiglie del luogo, perlopiù composte da lavoratori delle fabbriche tessili della zona, decisero di costruirsi da soli l’acquedotto. Versarono ciascuno una quota e chiamarono l’impresa ‘Comunione’. La prima sorgente fu un regalo di un commendatore locale: sta a quattro chilometri da qui. La seconda sorgente fu acquistata alla fine degli anni 30, per mille lire”. In paese iniziarono a comparire i “robinetti”, cioè fontane di strada, che solo dopo la Seconda guerra mondiale iniziarono a essere sostituiti dai rubinetti domestici.
L’acquedotto di Montaldo non è né pubblico né privato: appartiene ai proprietari-utenti (un centinaio), ovvero alle famiglie, che pagano la bolletta e prendono le decisioni sul consorzio, democraticamente, a partire dalla definizione delle tariffe (che in media sono più basse). “Ci riuniamo nella sala della cooperativa di consumo…” dice Simone. Che prosegue “Siamo un soggetto non profit il cui unico obiettivo è fornire un servizio efficiente ai soci. La struttura è quasi completamente volontaria: molti membri del consiglio di amministrazione hanno visto i loro genitori o i loro nonni chini a scavare i solchi dove ancora oggi corrono le tubature”. Li chiamano “i nostri padri” e li ricordano per nome: al Cisrin, al Tamè dlu scupel, al Fiurenzo, al Valantin’d Bocc, al Pierino travers, al Biseu, l’Avucat…
Lo statuto attuale risale al 1974: oggi il consorzio attinge da 14 sorgenti, gestisce 15 chilometri di tubature e distribuisce in media 10mila metri cubi di acqua potabile l’anno agli utenti, per un budget di 10mila euro l’anno.
Di consorzi come quello di Montaldo, ovvero per i quali i soggetti proprietari sono diversi dall’ente locale, nella zona ce ne sono almeno un centinaio. Un patrimonio di impianti e storia che si sente minacciato. La normativa in materia (la nota legge Galli del 1994) prevede infatti che la gestione degli acquedotti venga data in mano agli enti locali, ma solo attraverso società per azioni, le quali possono essere soggette a privatizzazione. Per questo, l’Ato2 Piemonte (Ambito territoriale ottimale), l’ente sovracomunale che governa la gestione del servizio idrico, ha fatto più volte pressione ai consorzi del biellese affinché decidessero di farsi assorbire dai comuni e dalle grandi società di gestione dell’acqua. Da queste parti, quelle più note sono Cordar Spa Biella Servizi e Comuni Riuniti srl (di cui fa parte anche il comune di Mezzana Mortigliengo).
Molti consorzi, soprattutto della parte occidentale della zona, hanno consegnato le chiavi degli acquedotti in mano agli enti locali e alle loro aziende, complici le difficoltà di gestione autonoma e le innumerevoli responsabilità per i presidenti dei consorzi. Il risultato però in molti casi è stato l’aumento delle bollette a fronte della cessione a costo zero di impianti in ottime condizioni. “E l’acqua la prendono dalla diga…” commenta il signor Piero (nella foto a sinistra), che del consorzio è il presidente e, sempre fiero, mostra l’apparato a raggi UV (a destra) che permette di evitare l’utilizzo del cloro per la depurazione: “Siamo all’avanguardia”, dice.
Il consorzio di Montaldo invece non ha ceduto e si è tenuto ben stretto il suo acquedotto. Una “ribellione” civile cui hanno aderito una trentina di consorzi privati della zona orientale, che nel 2007 si sono infine riuniti in un organismo dal nome “programmatico”: “Associazione di tutela dei consorzi delle acque libere”. L’associazione rappresenta 1.500 utenze servite, 120 sorgenti e 100 chilometri di tubature. Numeri con i quali l’Ato ha dovuto fare i conti, e che hanno permesso una serie di vittorie. La più importante, quella che ha fatto sì che il contratto di gestione riconosciuto ai consorzi fosse stabilito della durata di 15 anni, e non di 5 come proposto dall’Ato. All’appello però manca un sostegno finanziario: “Facciamo un servizio pubblico, ma non siamo un ente pubblico” spiega Simone. “Per questo non possiamo accedere direttamente ai fondi a disposizione per chi gestisce gli acquedotti”.
Mentre si attende sull’argomento una presa di posizione del consiglio regionale, a Montaldo continuano a cavarsela da soli. Come da un secolo a questa parte. (pr)

Un nuovo piano
Il sistema idrico necessita investimenti strutturali
Gilberto Muraro è stato presidente del Comitato di vigilanza sull’uso delle risorse idriche (Co.Vi.Ri.), istituito presso il ministero dell’Ambiente e oggi trasformato in Commissione nazionale per la vigilanza sulle risorse idriche. Insegna Scienza della finanze all’Università di Padova, di cui è stato anche rettore dal 1993 al 1996. Muraro auspica un “Piano acqua”, che impegni il governo a sostenere la realizzazione degli investimenti nell’ambito del servizio idrico integrato (acquedotti, fognature, depurazione), l’insieme di molte “piccole opere” che vale, nel complesso, 60,5 miliardi di euro nei prossimi 30 anni.
Professor Muraro, perché c’è l’esigenza di un “Piano acqua”?
“Intanto, perché è previsto dalla legge. I Comuni sono stati costretti a riunirsi in Ambiti territoriali ottimali (Ato), a fare ricognizioni sullo stato delle reti e a redarre un Piano d’ambito, che ha individuato gli investimenti necessari per arrivare, in un dato numero di anni, a fornire acqua potabile ma soprattutto depurazione e raccolta delle acque reflue agli italiani. E sugli ultimi due aspetti siamo in ritardo.
A differenza del ‘Piano casa’ sull’edilizia abitativa, questa non è un’invenzione congiunturale, ma affonda le radici in elementi strutturali della normativa italiana. Si trasforma in un intervento anche ‘congiunturale’ per il rallentamento degli investimenti previsti nei Piani d’ambito. Un ritardo, soprattutto nel campo della depurazione, che ci espone a sanzioni da parte della Comunità europea. I Piani d’ambito diventano così un’occasione ghiotta da sfruttare in ambito di politiche congiunturali, perché sono investimenti da sbloccare. Uniamo, cioè, esigenze di rilancio dell’economia a esigenze strutturali”.
Quali sono i limiti alla piena realizzazione dei Piani d’ambito approvati?
“La riforma del ‘94 prevede che i costi d’investimento siano addossati agli utenti: sia pur con tariffe differenziate, quella media deve colmare i costi di investimento. Per questo i Piani d’ambito prevedono adeguamenti tariffari. Nell’attuale congiuntura economica, alzare le tariffe per avere accesso ai finanziamenti diventa un problema. La mia proposta, così, è quella di dare una mano con denaro pubblico, un’agevolazione del 20% che diminuisca l’onere sugli utenti, e dia una mano essenziale per mettere in moto investimenti fino al 31 dicembre 2010. Venti euro potrebbero mobilitarne 80, un effetto leva interessante. Da un punto di vista operativo, il contributo può essere a fondo perduto, oppure un credito molto agevolato, e può chiamare in causa la Cassa depositi e prestiti, che dovrebbe interessarsi del settore in modo più adeguato”.
Che il pubblico investa nell’adeguamento degli acquedotti e delle reti idriche su scala nazionale è una richiesta anche del Forum italiano dei movimenti per l’acqua.
Il movimento, però, chiede che gli investimenti non siano caricati in bolletta sugli utenti. Il professor Muraro non è d’accordo: “Non dobbiamo tornare indietro: c’è una mole d’investimenti subito attivabili, che andrebbero nella direzione giusta per alzare la qualità della vita nel Paese. Siamo di fronte ad un gap notevole e intollerabile per i reflui non depurati e per le fognature. E c’è un problema di obsolescenza della rete acquedottistica, che ormai è estesa al 96% della popolazione ma ha bisogno di molti interventi di manutenzione straordinaria”.
Perché i soggetti industriali che gestiscono il servizio idrico non investono adeguatamente, ad esempio, per limitare le perdite?
“In una logica industriale, l’investimento non è remunerativo. Perché è costoso riparare perdite elevate ma disperse. Non ci sono benefici aziendali”. (lm)

Mercato obbligato
Tutta l’acqua potabile al mercato entro la fine del 2011. È quello che vorrebbe far credere il governo, che a inizio settembre ha modificato, in senso peggiorativo, l’articolo 23 bis della legge 133/2008 (vedi Ae 98). Leggendo il nuovo decreto-legge del 9 settembre 2009 l’idea di acqua come bene comune” pare cancellata: l’articolo 15 (“Adeguamento alla disciplina comunitaria in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica”) impone la gara obbligatoria per la concessione a imprese private del servizio locale di acqua, gas, energia, rifiuti e trasporti. L’alternativa possibile è l’affidamento a spa “miste” pubblico-privato, con quest’ultimo almeno al 40% del capitale. Tutte le gestioni in house (affidamento diretto a società per azioni a totale controllo pubblico) in essere al 22 agosto 2008 cessano per decreto al 31 dicembre 2011. L’eventuale ricorso a nuovi affidamenti diretti dovrà essere sottoposto a preventiva autorizzazione dell’Antitrust. In attesa, entro fine 2009, dei regolamenti attuativi della riforma, il professor Alberto Lucarelli, ordinario di Diritto pubblico dell’Università Federico II di Napoli, scrive che “ripubblicizzare si può”: “La norma in oggetto -spiega- non si applica al governo e alla gestione dell’acqua in quanto il servizio idrico integrato non è un servizio a rilevanza economica” (vedi Ae 107). Secondo Lucarelli la norma è incostituzionale, poiché esclude il ricordo a modi di gestione pubblici, come il ricorso all’azienda speciale. (lm)

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