Opinioni
La spending review nasconde una riforma non democratica dello Stato
Non solo tagli, tra i 7 e 10 miliardi di euro. L’azione del governo sulla spesa pubblica comporta una ridefinizione del perimetro d’azione e della geografia delle pubbliche amministrazioni. Il commento di Alessandro Volpi, autore di "Sommersi dal debito" (Altreconomia, 2011)
Era stata avviata, prima di tutto, come un’operazione per far cassa, un pronto intervento finalizzato a riempire alcune caselle del pesante questionario inviato all’Italia dalla Commissione europea. La spending review all’origine era questo; la ricerca rapida di voci a cui togliere una parte delle risorse disponibili, senza in realtà una vera ambizione strutturale che non fosse quella della più immediata ed evidente razionalizzazione delle spese. Per metterla in moto Monti si era affidato a Piero Giarda e a Vittorio Grilli, due superesperti dei conti pubblici, a cui ha poi affiancato un noto “tagliatore di costi aziendali” come Enrico Bondi. Spulciare tra le innumerevoli pieghe della contabilità dello Stato e degli enti locali era la certosina missione affidata a questi tre altissimi burocrati. L’entità dei tagli, in effetti, risultava coerente con un simile impianto. Si parlava di quasi 300 miliardi di euro di spese da analizzare in prospettiva ma entro la fine del 2012 la cifra da recuperare era assai più limitata e si fermava a 4,2 miliardi di euro, necessari per evitare l’aumento di due punti dell’Iva. Nel giro di poco tempo, invece, la revisione della spesa è cambiata profondamente sia nell’ammontare dei tagli da essa contemplati sia nella qualità degli interventi. In termini quantitativi la dimensione dei tagli è infatti salita prima a 7 e poi a 10 miliardi, sempre entro la fine dell’anno, per procedere alla copertura non solo del minor gettito Iva, ma anche delle misure relative al maggior numero di esodati rispetto alle stime originarie e alle spese per la ricostruzione nelle zone dell’Emilia colpite dal terremoto.
Dalla spending review dovranno essere finanziate inoltre le cosiddette spese “esigenziali”, tra cui la copertura del 5 per mille e delle missioni militari, mentre resta, nonostante i dati rassicuranti forniti dal ministero, l’incertezza sul minor gettito Imu. Infine continua a pesare l’incognita spread, che, per evitare ulteriori “manovrine”, dovrebbe scendere sotto i 300 punti, un obiettivo ancora molto distante da centrare. Dunque in breve tempo la spending review ha assunto un’immediata consistenza quantitativa che pare destinata a crescere ancora. Ma l’aspetto più rilevante riguarda la sua stessa natura che sta andando ben oltre la logica dei meri tagli e sta assumendo i connotati di una sorta di parziale riforma dello Stato operata passando da una porta decisamente secondaria. Al primo decreto di revisione di spesa se ne aggiungeranno con molta probabilità altri due, in rapida sequenza, che avranno ad oggetto meccanismi sensibili del funzionamento della macchina pubblica. Oltre al vasto piano di risparmi sugli acquisti di beni e servizi da parte dello Stato e degli enti locali, la cui reale incisività è assai difficile da valutare in sede preliminare, prenderà corpo, nelle intenzioni del governo, un significativo dimagrimento degli organici pubblici attraverso l’istituto del “collocamento in disponibilità” previsto dal decreto dell’agosto 2011, in base al quale produrre un gran numero di “prepensionamenti di fatto” di dipendenti statali. Nella stessa ottica si procederà ad un drastico taglio alle spese della Sanità, per un ammontare complessivo di 8,5 miliardi in tre anni, di cui oltre un miliardo già da ora a fine anno che dovrebbe provenire da una razionalizzazione delle procedure d’acquisto ma che, data l’entità, fa temere la soppressione di alcuni servizi. C’è poi la partita, tutta istituzionale, del taglio delle Province, destinato a coinvolgerne almeno 42 su 107, a cui si affianca l’ipotesi di un ulteriore abbattimento dei trasferimenti erariali agli enti locali, sempre più prosciugati di risorse essenziali alla loro stessa sopravvivenza. Il quadro di questa prima tranche della revisione della spesa dovrebbe completarsi con una complessa opera di riorganizzazione degli uffici territoriali del governo e degli apparati dei vari ministeri. In estrema sintesi, la spending review diverrebbe in tal modo il veicolo, assai dinamico, di ridefinizione del perimetro di azione e della geografia istituzionale delle pubbliche amministrazioni. Attraverso l’essenziale lotta agli sprechi e alle eccessive disomogeneità nelle spese dei ministeri e degli enti locali, tende a compiersi una trasformazione che avrebbe richiesto la realizzazione di quella riforma federale in larghissima misura invece scomparsa. Definire i livelli di spesa e cancellare parti dell’amministrazione pubblica può avere importanti benefici contabili, riducendo il fabbisogno del settore statale ma non affronta il nodo decisivo del rapporto tra spesa pubblica e forme della rappresentanza democratica che costituisce invece il cuore della questione per un Paese con oltre 1900 miliardi di debito pubblico.
* Alessandro Volpi, Università di Pisa