Opinioni
La recessione è finita?
Se il prodotto interno lordo cresce dello 0,3%, ciò non significa che una fase recessiva sia chiusa per sempre. Restano inalterati problemi di natura strutturale, a partire dal gigantesco fardello dell’indebitamento pubblico, dal peso asfissiante delle regole burocratiche, dall’inefficienza del credito, dalla cattiva distribuzione dei redditi e dall’incompiutezza del mercato del lavoro
È finita la recessione? Si tratta di una domanda che contiene in sé una dimensione numerica e una più complessivamente economica e sociale. Sul piano numerico, dopo l’incremento dello 0,3 registrato nel primo trimestre di quest’anno, saranno fondamentali i dati del prossimo trimestre, perché solo con la conferma delle tendenza positiva del prodotto interno lordo si potrà definire tecnicamente chiusa la fase recessiva.
In termini di politica economica la questione è ben più complicata, soprattutto se si intende le conclusione della recessione “tecnica” come sinonimo stretto dell’uscita dalla crisi.
Sulla ripresa del Pil svolgono infatti un ruolo molto importante alcuni fattori presenti nel contesto internazionale che non dipendono dall’Italia in senso stretto. In particolare stanno alimentando il rilancio mondiale il significativo contenimento del prezzo del petrolio, che sembra essersi stabilizzato ad un livello compreso fra i 60 e i 70 dollari, da tempo considerato il migliore per l’economia mondiale, perché in grado di tenere in equilibrio le esigenze dei Paesi energivori e di quelli produttori di energia, un “sano” indebolimento dell’euro e la strategia di politica monetaria, ormai adottata con continuità dalla Banca centrale europea di Mario Draghi. Non è semplice quantificare la ricaduta di simili fattori sull’economia italiana, ma è molto probabile che gran parte della sia pur debole spinta del Pil nostrano provenga da loro. Produce un effetto favorevole anche la sostanziale ininfluenza della vicenda greca che, per quanto continui ad essere considerata un’ipotetica spada di Damocle sulla tenuta della moneta comune, non pare più giudicata in grado di determinare reali e diffusi effetti di contagio.
Il “Grexit”, nonostante le reiterate preoccupazioni della Bce e dei Paesi creditori nei confronti del governo Tsipras, non assume i contorni del cosiddetto “rischio sistemico”, e dunque non genera bruschi rialzi di spread nell’eurozona. Ulteriori elementi di rasserenamento del clima economico internazionale provengono dal consolidarsi della ripresa statunitense che può, almeno in parte, funzionare da traino per alcuni settori del Vecchio Continente, Italia compresa, e dal rallentamento della caduta del rublo, che porta con sé stime meno pesanti per l’economia della Russia e per la sua bilancia dei pagamenti, da cui stavano sparendo le importazioni. Anche in questo caso i benefici per l’Italia potrebbero essere non trascurabili visto il volume degli scambi bilaterali. Più controverso il futuro prossimo della Cina, che ha “normalizzato” la sua crescita con un dato di poco superiore al 7%, il più basso dal 2009, ma è diventata, proprio a maggio 2015, il primo consumatore mondiale di petrolio, superando gli Stati Uniti, con una domanda di oltre 7 milioni di barili al giorno.
Stupisce, poi, la solo limitata incidenza delle tante crisi geopolitiche aperte in varie parti del mondo, che a differenza di altri momenti della storia recente non paiono determinare un peggioramento troppo marcato delle aspettative degli investitori.
Tutti questi fenomeni in corso soffiano dunque nella direzione del rilancio di molte economie europee, e ciò contribuisce a rendere più semplice un “moderato” allentamento dei vincoli dell’austerità, che stanno accettando persino Paesi dell’Unione particolarmente affezionati alle politiche del rigore. La ripresa del Pil italiano si colloca all’interno di uno scenario simile, ed è in realtà più timida di quanto avvenga altrove, per alcune cause di natura strutturale (a partire dal gigantesco fardello dell’indebitamento pubblico, dal peso asfissiante delle regole burocratiche, dall’inefficienza del credito, dalla cattiva distribuzione dei redditi e dall’incompiutezza del mercato del lavoro). Questi elementi impediscono all’azione della Bce di svolgere in pieno il proprio ruolo, e costringono a consumare i margini di agibilità nei vincoli europei per coprire “buchi” altrimenti non arginabili. Anche la recente sentenza della Corte costituzionale in materia di pensioni sembra confermare l’impressione che non sia la politica del governo a delineare i percorsi di distribuzione della ricchezza. Dopo tanto tempo è tuttavia emerso un dato assai positivo, rappresentato dalla ricomparsa della domanda interna, la cui crescita risulta, nel trimestre in questione, in grado di accompagnare la tradizionale propulsione delle esportazioni.
La recessione è finita? In parte, si potrebbe dire in maniera molto salomonica.
* Università di Pisa